È buffa la vita. Divido la camera con un ragazzo che ha aspettato mesi per trovare un posto in un centro d’accoglienza, mentre io per sei anni non ho voluto saperne di accettare la proposta dell’Help Center di non dormire in stazione e di venire qui. Ma come faccio a spiegarti? Alla strada mi ero abituato. Qui, se ci pensi, non sono tanto libero: devo rientrare a una certa ora, ad una certa ora devo uscire, non posso bere, mi devo lavare, cambiare; non si litiga, non si urla. Quasi non mi ricordavo cosa volesse dire dormire in un letto, però. E mi fa paura, perché adesso vedo la strada: una salita che non finisce mai. Il mio compagno di stanza parla che non si capisce niente. Mi ha fatto vedere le foto di sua mamma nel telefonino. C’è tutta la sua vita lì. La mia, invece, era finita prima degli smartphone e di foto non ne ho. Della mia vita c’è solo quello che ho qui, in due borsoni, e adesso che me ne rendo conto sono paralizzato. Però dico: Questo ha camminato due anni nel deserto, l’hanno torturato, e invece di dormire studia per l’esame della patente. E io? Forse anche io…