Una città nella città: viaggio tra chi a Roma vive per strada


Pubblicato il 17.01.2006 in News Sociale

Se nel '98 si stimavano 5mila presenze, oggi si parla di 10-12mila. Bonadonna (Comune Roma): ''Commistione tra povertà urbana estrema e vulnerabilità sociale''. 

Quest'anno il Comune di Roma dedica al "Piano inverno" 1.000 posti letto, portando a 4.176 i posti disponibili del circuito dell'accoglienza per le persone senza dimora. Erano 550 nel 2000. Ma come si differenzia un così vasto intervento? Chi si rivolge ai dormitori? Quanto tempo rimane in struttura? Quanti progetti di autonomia vanno a buon fine? Chi lascia spontaneamente le strutture e perchè? I posti sono tutti occupati? Perché molti continuano a dormire al freddo ogni notte?

Per capire meglio chi oggi a Roma vive per strada, a chi si rivolgono i servizi, chi ai servizi si rivolge e chi dai servizi rimane escluso, Redattore Sociale ha intervistato Federico Bonadonna, responsabile dell'area Emergenze sociali del V° dipartimento del Comune di Roma, e visitato 5 centri di accoglienza della capitale. 

Lungo le strade di Roma, nelle sale d'attesa di stazioni e aeroporti, sotto i ponti del Tevere, nei parchi, nei cantieri edili di notte o nei vagoni inutilizzati delle stazioni, in case abbandonate o in ruderi dismessi, vive una città nella città. Sono sia italiani che stranieri, e alla provenienza spesso si abbinano vissuti diversi. In linea di massima per gli italiani la strada è il traguardo di una progressiva emarginazione che si manifesta con la perdita del lavoro, delle relazioni di riferimento e della casa, spesso accompagnata da dipendenze e depressioni. La situazione di senza dimora dell'immigrato è invece spesso vissuta come una tappa forzata, sofferta, ma temporanea, della migrazione. C'è poi una minoranza tra gli stranieri che vive situazioni di marginalità simili a quelle degli italiani, quando - spesso per malattia, infortuni, o depressioni - dopo anni in Italia vive il fallimento del proprio progetto migratorio e recide i rapporti familiari e amicali. Sempre tra gli stranieri - specie tra gli est-europei, rumeni in primis, per la facilità dell'ingresso in Italia - c'è una significativa percentuale di persone prive di permesso di soggiorno che emigrano a Roma per alcuni mesi, soprattutto in inverno, in cerca di impiego. Lavorano alla giornata, perlopiù come manovali nei cantieri edili della città. Per strada dormono anche zingari e richiedenti asilo politico. C'è poi una nuova fascia di adulti senza particolari problemi, spesso con un lavoro fisso, che magari dopo una separazione perdono la casa e, privi di reti di sostegno, si trovano presto a dormire in macchina e poi in strada. Aumentano infine i casi di madri con bambini che, spesso in seguito a violenze domestiche o sfratti, perdono l'abitazione.

Questa la fotografia della povertà e del disagio sociale nella capitale secondo Federico Bonadonna, direttore dell'area Emergenze sociali del V° dipartimento del Comune di Roma, secondo il quale "negli ultimi anni c'è stato un considerevole aumento delle persone su strada". É anche aumentato il livello di monitoraggio del territorio, ma l'aumento c'è ed è reale: "se nel 1998 stimavamo 5mila presenze oggi parliamo di 10-12mila".

Dietro l'aumento il fatto che i servizi oggi si rivolgono a nuove tipologie di persone. Sempre più infatti l'emergenza sociale risponde agli immigrati poveri dell'est Europa e si fa carico degli effetti di una crescente vulnerabilità sociale.

"Oggi assistiamo ad una commistione tra povertà urbana estrema e vulnerabilità sociale - spiega Federico Bonadonna -. La sovrapposizione dei due ambiti è conseguenza in primis della crisi che attraversa il tessuto sociale. Ma proprio per questa sua natura il fenomeno non può essere delegato all'emergenza sociale e deve essere affrontato in modo responsabile dai politici".

Il rischio è che per contenere gli effetti della vulnerabilità sociale diffusa dalla crisi della famiglia e del legame sociale, dai tagli al welfare, dalla flessibilità del lavoro e dall'impennata degli affitti, vengano distratte importanti risorse dei servizi per l'esclusione sociale e le marginalità.

Stesso discorso per le risposte date alla popolazione immigrata senza dimora, il cui iniziale disagio abitativo e lavorativo viene spesso preso in carico da un servizio di emergenza di per sé delegato a situazioni di grave emarginazione sociale. "Il problema - spiega Bonadonna - è l'assenza di un piano nazionale di integrazione e accoglienza della popolazione immigrata, e di cui gli Enti locali devono farsi carico". La scelta dell'amministrazione di Roma è stata quella di assistere, nel circuito dell'emergenza sociale, tutte le persone immigrate, quale che sia la loro posizione amministrativa, sul principio che "il governo di una città debba includere il più possibile tutti i suoi cittadini reali e nella convinzione che il contrario, ovvero l'abbandono di alcuni alle maglie dell'illegalità, alimenterebbe insicurezza e tensioni sociali della città". L'accoglienza è quindi estesa, per motivi umanitari, anche a chi non ha un permesso di soggiorno.

Sebbene l'assistenza a una parte della popolazione immigrata e il contenimento della povertà relativa sottraggano risorse all'assistenza delle persone senza dimora più emarginate e fragili, secondo Bonadonna "un discorso impuntato sul risparmio dei fondi pubblici è pericoloso. Rischiamo di parlare di esclusione anziché di inclusione. Di chi non dovere aiutare anziché di come aiutare in modi diversi chi ha bisogni diversi".

Il Dipartimento ha individuato dei criteri per "selezionare chi ha la priorità e chi invece può aspettare". "Una selezione è necessaria - spiega Bonadonna - perché nonostante i 4mila posti disponibili, abbiamo 10mila persone su strada. Il criterio che adottiamo è quello della fragilità: anziani e donne con bambini in primis, ma anche adulti con handicap o problemi sanitari e poi tutte le persone multiproblematiche".

C'è un nodo critico tuttavia, che rende solo parziale l'applicazione di questi criteri e che consiste nel nesso tra "esigibilità di un diritto" e "richiesta del servizio". I più fragili hanno un maggiore bisogno di aiuto, ma i più fragili a volte rifiutano quello stesso aiuto o non ne sono raggiunti. Chi vive in strada da più tempo, con situazioni ormai cronicizzate, chi ha meno strumenti, chi ha disagi psichiatrici, magari con sviluppate dipendenze, ha più difficoltà a chiedere aiuto. Allo stesso tempo chi ha soltanto un disagio economico-abitativo è più determinato e si impegna in misura maggiore per accedere a quegli stessi servizi.

"Fondamentale - sostiene Bonadonna - è il ruolo delle unità di strada e dei volontari, che con un monitoraggio capillare e continuo del territorio vanno a cercare le persone più restie, e instaurano con loro un rapporto di fiducia".

E alla domanda se si debba rispondere per forza a tutti, anche a chi rifiuta ogni intervento, la risposta del direttore Emergenza sociale è no. "Non c'è un modello di intervento valido per tutti. Ci sono modelli diversi misurati sulle diverse esigenze delle persone. L'empowerment non può essere l'unica filosofia di intervento. Esistono persone che non si integreranno, verso le quali non restano che interventi di contenimento, di promozione della cura di sé, di piccola socializzazione. Non si può pretendere che un sessantenne diabetico alcolista torni a lavorare". Se l'empowerment divenisse il criterio di accesso e permanenza nelle strutture, "tutte quelle persone che non hanno maturato una scelta di cambiamento e quelle che non la matureranno, rimarrebbero escluse dai servizi. In attesa di quella scelta però chi vive per strada rischia la vita".

Per questo esistono strutture e servizi diversificati: centri di prossimità, di lunga permanenza e di transito. All'accoglienza si accede telefonando al numero verde (800.440022) della Sala operativa sociale (Sos), che decide gli ingressi dopo un breve colloquio telefonico.

I centri di prossimità sono strutture con accesso a bassa soglia e non omogeneizzati, centrali o comunque vicini ai luoghi di aggregazione di strada.  "L'omogeneizzazione costituisce sempre un rischio di ghettizzazione", spiega Bonadonna. Inizialmente viene data un'accoglienza di 2-4 giorni, dopodichè "si decide se rinnovare la permanenza o trasferire la persona in una struttura di lunga permanenza" sulla base di un progetto personale.

I centri di lunga permanenza sono omogeneizzati per tipo di utenza, ad esempio i 4 centri d'accoglienza per madri con bambini, e non c'è una data di uscita. Vi accedono le persone con progetti di reinserimento. Gli alloggi di transito infine sono appartamenti affittati a canone favorevole e per un periodo limitato in vista dell'autonomia abitativa. La gestione dei centri è "appaltata al privato sociale", e quindi a personale formato, e "pagata dal V° Dipartimento in base al numero di accoglienze".

Il coordinamento e l'indirizzo del circuito delle accoglienze fa capo al Dipartimento, che attraverso i 5 referenti dell'"Unità di Valutazione" verifica settimanalmente, caso per caso, i progetti degli ospiti e, in rete con i servizi, i centri e la persona, valuta l'andamento e decide eventuali trasferimenti.


Autore: Gabriele Del Grande
Fonte: Redattore Sociale