Visitando la mostra Fore-closed: Rehousing the American Dream, in corso al MOMA di New York, che illustra le nuove possibilità architettoniche per le città e le periferie, nel manifesto che accoglie i visitatori si legge: “la casa e la città o la periferia in cui è situata condividono un destino comune” e possono influenzarsi reciprocamente. Niente di più adatto a descrivere l’evoluzione subita dalle stazioni ferroviarie più importanti, in Italia e in Europa, negli ultimi quindici anni. Per dirla metaforicamente, la stazione ferroviaria è una bella casa in brutto quartiere. O un’isola accogliente in un minaccioso mare urbano. Cioè, anche la stazione, come la casa privata, condivide il destino della periferia in cui si trova. Che sia al centro di una città storica, come Roma o Parigi, non conta. Ciò che interessa, piuttosto, è che, sebbene i dintorni delle stazioni ferroviarie italiane abbiano subito un impoverimento, con conseguente degrado, fra negozi scadenti, edifici sbiaditi, hotel di bassa qualità, affari illeciti e persone sospette, però, dentro, vuoi per una particolare organizzazione, vuoi per un insieme di attività e servizi, le stazioni sono diventate un luogo invitante per un ampio spettro di persone. E, secondo quanto hanno riportato in un articolo pubblicato sul magazine FEANTSA (The European Federation of National Organisation Working with the Homeless AISBL), Homeless in Europe, il direttore dell’Osservatorio Nazionale sul Disagio e la Solidarietà nelle Stazioni (ONDS), Alessandro Radicchi, e il responsabile delle Attività sociali d’impresa di Ferrovie dello Stato Italiane, Fabrizio Torella, per una piccola categoria sociale, è qualcosa di più. Un posto familiare. Tutt’altro che un “non luogo”, come ebbe a definirle Marc Augè insieme ai suoi colleghi sociologi. Una “città nella città”. Un variegato microcosmo. Con un’identità, servizi, negozi, ristoranti, banche, uffici postali, punti di assistenza, anche sanitaria. Ma, soprattutto, facilitano la socializzazione. Pure per coloro che, nella nostra società, non sono sempre i benvenuti. I senza tetto. Per i quali, non disponendo di una casa, di un lavoro e di una famiglia, quello delle stazioni diventa il miglior tetto possibile.
Gli Help Center
E pare che la scelta della stazione vada di pari passo con i suoi standard qualitativi. Cosicché, è più raro trovare la presenza degli homeless nelle stazioni delle piccole città, prive di servizi di accoglienza e di sicurezza, piuttosto che in quelle delle metropoli. Perché offrono nuovi servizi rispondendo alle esigenze di tutti gli esseri umani, anche di quelli più vulnerabili. Tipo: un posto caldo, pulito, sicuro, illuminato. Ma non è sufficiente. Serve qualcosa oltre il necessario. Aiuto e solidarietà. Una risposta efficace e alternativa alle loro esigenze, anche al di fuori della stazione ferroviaria. E così che, dal 2002, le persone senza fissa dimora possono rivolgersi agli Help Center, oggi presenti in quattordici città della penisola, nati dalla collaborazione tra l’azienda ferroviaria, che fornisce gli spazi gratuitamente, le associazioni no profit, che offrono il servizio, e le amministrazioni locali, che garantiscono un sostegno finanziario, attraverso i fondi pubblici, e un appoggio istituzionale. Combattere l’assenza di fissa dimora e non i senza fissa dimora è lo scopo di questo progetto trilaterale. Attraverso la conoscenza del fenomeno, quale unico strumento per abbattere giudizi e pregiudizi. Da qui, l’intervento dell’ONDS. Come? Tenendo la ‘contabilità’ di tutti coloro che hanno preso contatto con gli Help Center, attraverso la creazione di una database contenente dati personali, a disposizione di tutti i centri di assistenza italiani della rete. Un “diario elettronico” che tiene traccia dello sviluppo degli interventi sociali per ogni utente assistito, permettendo a tutti gli operatori di essere a conoscenza dei singoli casi, anche quando gli homeless ‘viaggiano’ di stazione in stazione. Di più. Fornisce un quadro ampio del fenomeno: sfogliando tra le pagine del “diario” e scoprendo età, sesso, grado di istruzione, condizioni abitative, si può costruire una mappa anagrafica abbastanza dettagliata.
L'identikit
Come ha confermato a Il Punto, il presidente dell’ONDS, Alessandro Radicchi, "il sistema informatico che abbiamo costruito e che mette in connessione i centri della rete ONDS presenti nelle principali stazioni ferroviarie italiane, ci permette di avere un quadro in tempo reale dell'evoluzione del disagio nelle nostre città. Se dovessimo tracciare un profilo dell'utente tipico dei nostri sportelli, diremmo che si tratta di un uomo tra i 30 ed i 40 anni di nazionalità straniera che principalmente non cerca beni primari ma lavoro. In particolare vediamo che tra le circa 10.000 nuove persone che ogni anno si registrano ai nostri sportelli per un totale di circa 130.000 espressioni di un bisogno, possiamo tracciare a grandi linee due tipologie di profili, la persona immigrata tra i 18 ed i 40 anni in cerca di lavoro e l'uomo l'italiano tra i 40 ed i 60 anni che cerca sì, lavoro ma anche supporto diretto. È a mio avviso quest'ultima la fascia più critica del disagio italiano, dopo la perdita del lavoro e prima di poter ottenere la pensione, un periodo della nostra vita che se non opportunamente tutelato, nel caso dell'insorgere di nuove improvvise problematiche inattese può portare chiunque di noi, anche quello oggi apparentemente più ricco, a ritrovarsi improvvisamente in strada."
I progetti europei
Informazioni utili a cercare soluzioni per un fenomeno che sta crescendo contestualmente alla mancanza di fondi. Fortunatamente, l’Unione europea ha finanziato due progetti: Hope in Stations e Work in Stations, con lo scopo di sviluppare nuovi strumenti di inclusione sociale destinati ai più vulnerabili. Intervenendo sulla ‘bonifica’ delle stazioni ferroviarie per espanderli a tutta la città. Tanto di cappello. Visto che in alcuni Paesi dell’Unione europea, i senza fissa dimora sono portati via (regolarmente) dagli spazi pubblici che, invece, secondo gli interessi dello Stato dovrebbero soddisfare fini commerciali, facendo ricorso al sistema di giustizia penale. O attraverso misure anti-accattonaggio come approccio coercitivo per ‘criminalizzarli’. Succede in Austria, Spagna e Irlanda. Oppure attuando restrizioni rigorose che lasciano i ‘barboni’ (migranti) in un vuoto giuridico. Vedi la Danimarca. O, ancora, in Paesi, quali l’Inghilterra e i Paesi Bassi, l’applicazione di queste leggi viene spacciata come una misura utile a collegare i senza fissa dimora con i servizi assistenziali. Domanda: ma può l’anti-accattonaggio essere una buona pratica per affrontare il problema? Gli addetti ai lavori lo escludono. Anzi. Potrebbe alimentare l’emarginazione e avere serie ripercussioni sui diritti umani.