Nel capoluogo piemontese un seminario organizzato da Anci e Comune. La città vive una radicale trasformazione urbana. ‘’L’obiettivo è quello della massima diversificazione delle categorie sociali’’.
“Mandiamo in soffitta la parola casa popolare”: è lo slogan che l’assessore Roberto Tricarico ha coniato per sintetizzare la nuova via da percorrere, sulla quale la Città di Torino è un passo avanti rispetto alle altre grandi città italiane. “Città metropolitane verso l’abitare sociale” è il titolo del seminario che si è tenuto oggi, promosso dall’Anci in collaborazione con il Comune di Torino, per parlare di strategie per il controllo dello sviluppo urbano, presentare il Modello Torino come insieme di mix sociale e incentivi, proporre l’apertura al mercato privato della locazione e altro ancora. Abitare sociale deve voler dire affrontare le spontanee trasformazioni delle città, che assumono sempre più una conformazione policentrica, per governarne lo sviluppo e per indirizzarlo alla creazione di tessuti urbani organici e armoniosi. Un impegno che le città, in prima fila Torino, conducono sulla falsariga di tre parole chiave: qualità (architettonica, urbana, socio economica), sostenibilità (ambientale, economica, sociale), integrazione (funzionale, culturale, gestionale).
In una città che ha perso la sua tradizionale divisione in quartieri, con la netta separazione fra centro e periferie, e che oggi vive una continua e radicale trasformazione urbana, la nuova popolazione è più fragile, ma più esigente. È una Torino che non ha una forte concentrazione di disagio come nelle banlieus francesi, ma assiste invece ad un fenomeno nuovo, quello dell’occupazione di zone a margine, interstiziali, zone di forte criticità, anche e soprattutto fra parti residenziali, di non criticità. Nelle fasce deboli, non più proletari e operai, ma giovani precari, anziani, separati o divorziati, immigrati che dopo una prima sistemazione vorrebbero un posto stabile, anche per le famiglie: ”Nel ‘700 i ceti avevano una divisione verticale – ha sottolineato Silvio Virando, dirigente dell’ERP – nello stesso palazzo abitavano persone di ceti differenti, e la differenza era il piano; nel ‘900, la distinzione è diventata orizzontale, sul territorio, con enormi quartieri mono ceto, di scarsissima qualità edilizia. Dal primo dopoguerra agli anni ’70 si è costruito il più possibile al minor costo, quindi tante case a bassa qualità, nelle periferie”.
In questi ultimi dieci anni, invece, si è cercato di riparare a questi “guasti”: oggi infatti a Torino si sta attuando una trasformazione urbana, che è partita dalla riorganizzazione del nodo ferroviario; lungo l’asse nord sud della spina centrale si sono create residenze, sedi universitarie, servizi, ecc…, fino a creare una città nella città, su un’area enorme (1 milione di metri quadrati) con 15.000 abitanti; un laboratorio delle politiche dell’abitare, con anche interventi per favorire l’integrazione. “L’obiettivo è quello di garantire un mix, la massima diversificazione delle categorie sociali - ha concluso Virando - tutta l’edilizia pubblica deve avere come scopo proprio un’inversione di tendenza rispetto agli anni ’70-’80: quella cioè di non creare più ghetti”.
Redattore Sociale