Si può curare la malattia mentale dietro le sbarre? Se ne parla a Torino


Pubblicato il 14.07.2006 in News Sociale

Il 12% delle persone che entrano nelle carceri del Piemonte soffrono di problemi psichiatrici. E sono 1151 gli internati negli Opg. Un seminario nella casa circondariale di Torino, dove opera il progetto sperimentale ''Il Sestante''

La malattia mentale può essere curata in carcere? "Posta in questo modo, è una domanda di difficile risposta. Io la metterei così: ad oggi - risponde Pietro Buffa, direttore della casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino - ritengo che ciò che è possibile realizzare siano iniziative come il nostro progetto Il Sestante. Non voglio affermare che il carcere è di per sé curativo: questa sì, sarebbe una contraddizione. Però in un ambiente come il carcere, che presenta tutta una serie di disagi e di aspetti organizzativi, ecco che un intervento come il nostro si differenzia dallo standard, perché vede l'ingresso della Sanità pubblica con parametri uguali a quelli esterni, ovviamente tenendo conto di un contesto diverso”.

Pietro Buffa risponde a Redattore Sociale a margine del seminario “L"intervento psichiatrico in carcere”, organizzato proprio al “Lorusso e Cotugno” dalla Sip (Società italiana di psichiatria) e dal Dsm (Dipartimento di salute mentale) “Giulio Maccacaro” della Asl 3  di Torino sul tema: “L’intervento psichiatrico in carcere”. Il Sestante, l’iniziativa citata da Buffa, è un progetto sperimentale nato dalla collaborazione fra l’istituto penitenziario torinese e il Dsm dell’Asl 3: due aree di detenzione del “Lorusso e Cotugno” sono state trasformate in un reparto di osservazione e trattamento psichiatrico che con un'équipe di psichiatri, psicologi, infermieri, educatori e medici di medicina generale garantisce l'intervento sui detenuti con disturbi mentali, provenienti anche da altri regioni. “In 4 anni d’attività a Il Sestante  sono passate ormai centinaia di persone, e con buoni risultati”, afferma Buffa.

Una ricerca ha evidenziato come il 12% delle persone che entrano nelle carceri del Piemonte presentino problemi psichiatrici. (Quanto alle dimensioni del problema nelle carceri italiane, che hanno ormai raggiunto il triste record di 62.000 detenuti per 43.000 posti disponibili, ai margini del seminario sono circolati dati contrastanti, che spaziano da 6000 detenuti con disagio psichico a ben il 20% di tutti i detenuti). Al di là delle cifre, il segretario nazionale della Sip Luigi Ferrannini ha ricordato nel suo intervento che “già gli atti di autolesionismo richiedono letture diverse rispetto a quanto avviene fuori dal carcere. A scatenarli possono bastare gli ostacoli a piccole 'addiction’, a piccole dipendenze come quelle da cellulare, che come si sa in carcere non si possono tenere”.

Queste invece le cifre del disagio psichico-giudiziario estremo: sono 1151 gli internati nei 6 Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) e nel Centro di cura e custodia di Firenze, ai quali però bisogna aggiungere 120 persone in licenza penale di esperimento. Adolfo Ferraro, direttore dell’Opg di Aversa (Ce), ha tratteggiato la situazione sociale e giudiziaria degli internati: il 90% provengono da condizioni economiche disagiate (“i ricchi all’Opg non ci finiscono quasi mai”), sono spesso celibi sui 30-40 anni, il 60% sono trattenuti per una proroga della “misura di sicurezza”, una proroga che a sua volta è dovuta in gran parte alla mancanza di servizi esterni di accoglienza. “Da noi ad Aversa il 12% dei 300 internati è lì per maltrattamenti in famiglia. Mentre io credo che l’Opg dovrebbe essere il luogo per la diagnosi e la terapia dei soggetti veramente pericolosi”.

In un duro intervento, il sociologo clinico Claudio Renzetti ha collegato la crescita abnorme dell’area penale in Italia negli ultimi 15 anni all’aumento delle “vite di scarto” emarginate dai processi produttivi e alle “difficoltà a riciclarle” nella società: “Matti, alcolisti, tossicodipendenti, giocatori compulsivi sono individui che si sono misurati con le ‘offerte’ impossibili e spiazzanti di cui le nostre città sono piene. È un problema di come li trattiamo, ma anche di come ci trattiamo”. Alla stessa domanda rivolta da Redattore sociale al direttore Pietro Buffa, ancora a margine del seminario (che si conclude oggi) Renzetti ha risposto: “No, in un carcere la malattia mentale non la si può curare. Curare in costrizione può essere un episodio, come avviene per il Tso. Ma in un contesto così pieno di vincoli come il carcere è un controsenso”.

 

Redattore Sociale


Autore: gg