Volontari e onlus, in strada e nelle strutture di accoglienza messe a disposizione da FS
È ora di cena, eppure non c’è l’odore di cibo che stimola l’appetito. Nulla di invitante: buio, smog e rumori della città che si muove al rientro da una giornata di lavoro, lampeggianti che fanno da segnalamento a 4 pulmini e a 2 auto ferme in doppia fila in piazzole di sosta che esistono solo di fatto. Non ci sono, ma le conoscono tutti, evidentemente, sono le tappe dei volontari che ogni sera distribuiscono il cibo intorno alla stazione Termini, si parte da via Giolitti e poi su via Marsala. Nel giro di qualche minuto, giusto il tempo per i volontari di aprire il bagagliaio, spuntano dal nulla a frotte, da strade anche queste invisibili.
Silenziosissimi, te li ritrovi alle spalle e non sai da dove siano giunti, incappucciati e senza parole, a passi rallentati. È il bisogno a sospingerli, la fragilità che muove le persone, nessuno saluta, nessuno chiede, è tutto molto chiaro sia per chi dà sia per chi riceve. È un gesto identico, in effetti, tendere la mano, il silenzio risparmia l’umiliazione di chiedere.
Preso il sacchetto, ugualmente si inabissano per le stesse strade invisibili dalle quali sono arrivati: un uomo - sembra molto anziano - si infila in una macchina, una vecchia Punto verde parcheggiata lontano sotto una pensilina della stazione, solo come prima, in compagnia di un sacchetto. «Portiamo da mangiare, panini, una banana, yogurt, una merendina. A questo signore abbiamo dato un paio di scarpe che ci aveva chiesto la settimana scorsa, il nostro turno di distribuzione pasti a Termini è il giovedì», dice il volontario di un’associazione.
Un gesto che è una spinta di generosità primordiale, istintiva, irrefrenabile per chi vuole donare, e un sostegno per chi vive per strada. Eppure, nessuno ringrazia: minimizzare il dono ricevuto serve a salvare dal tonfo la dignità. D’altronde è il gesto di chi ti lascia la bottiglia di latte o un pacco sullo zerbino di casa, qui una coperta, un cartone, un odore pungente e un aspetto ispido che non consentono di oltrepassare la soglia. Ma perché non si ribellano, perché non fanno richiesta, e se sono pochi aumentiamo i posti letto, come si può restare indifferenti di fronte a queste persone?
«Molti di loro non scambierebbero quel pezzo di marciapiede per un posto letto al caldo», dice un volontario. «Per chi esce dalla condizione di socialità, l’isolamento diventa una zona di comfort. E riportarli all’interno di un consesso civile è frutto di un lavoro che a volte per gli operatori sociali può durare anche anni». Apparentemente un’accoglienza meno generosa che quella di strada, di chi non va incontro al bisognoso ma lo stimola perché si muova e lo aspetta «la sfida è tutta lì - continua Fabrizio - nella conquista di piccoli passi fatti verso la normalità».
Così è successo a Sergio, che oggi incontriamo nello spazio destinato dal Gruppo FS a intercettare l'emarginazione che ogni stazione finisce per attrarre e sviluppa qui attività sociali, tenta un recupero e offre assistenza, in raccordo con il Comune di Roma. È il Binario 95, lungo via Marsala, dà accoglienza diurna per circa 20 persone e una a bassa soglia (docce, lavanderia e cambio abiti) per altre 40 persone oltre a garantire ogni notte la privacy di 10 posti letto. Non sono camere come siamo abituati a pensarle, sono strutture in compensato dove una tenda sostituisce la porta, con tanto di nome di ciascuno a sottolineare una piccola ma importante proprietà privata.
Qui si trova la possibilità di mangiare al chiuso, di farsi una doccia, di ricevere assistenza sanitaria e legale gratuita, uno psicologo, un mediatore linguistico. Parla con l’operatore, Sergio, si muove come se fosse a casa sua con il pantalone di una tuta grigia e un paio di infradito, perché qui fa caldo. «Stasera pérdono» dice al volontario, come se fossero due amici al bar, che hanno deciso di guardare la partita. Sergio ha una storia pesante alle spalle, storia di abbandono e di abusi e poi la droga, la vita di strada.
L’Ostello Caritas è poco più là insieme, le due strutture, con lo spazio dell’help center, rappresentano ben 5.500 metri quadri della stazione che il Gruppo FS Italiane ha destinato ad aiutare chi ha bisogno. Ed è vero, il disagio aumenta, gli spazi non sono mai abbastanza e in tanti, in una metropoli che di edifici pubblici vuoti o sottoutilizzati ne conta molti, potrebbe fare di più. Ma qui la solidarietà si tocca con mano. E ha dovuto affrontare anche la pandemia che ha aggravato la situazione sanitaria e alloggiativa. Qui però il disagio degli ospiti sembra minore, l’assistenza è meno rassegnata, senti il tentativo, perché di questo si tratta, di aggregare più forze e più volontà, tanti attori insieme per costruire una rete di protezione e di sostegno pensando a un reinserimento sociale, a restituire una dignità.
Dagli ultimi dati dell’Osservatorio nazionale della solidarietà nelle stazioni (ONDS) le persone che si rivolgono all’help center crescono in modo esponenziale: solo a Roma erano 2.160 nel 2019, 2.300 nel 2020 per poi salire a 3.500 nel 2021, 700 solo nel primo mese di questo anno. Anche un panino fa bene, figuriamoci un consulto medico, o addirittura una occasione professionale. Li chiamiamo fragili, apolidi, italiani, stranieri, extracomunitari. Sono uomini e donne che in un momento della vita correvano su un filo e sono caduti, o forse persone che non avevano ancora imparato a volare.