Rifugiati: negli insediamenti spontanei si vive “sotto i livelli minimi di salute”


Pubblicato il 15.06.2012 in News Sociale

Studio ”Mediazioni Metropolitane” per la sperimentazione di un modello intervento. In tutto i richiedenti, titolari di asilo o in possesso di protezione umanitaria sono 60 mila. La maggior parte degli intervistati non ha fiducia nello Stato

 

Li chiamano “insediamenti spontanei” ma gli stanziamenti dove vivono i rifugiati nella grandi città sono vere isole di emarginazione, che sorgono spesso a pochi metri da stazioni e centri commerciali. Se pur con livelli di gravità diversi, in tutti questi insediamenti le condizioni abitative, infatti, “sono abbondantemente al di sotto di ogni standard minimo accettabile di salute e sicurezza”. La situazione più problematica è quella di Roma, dove si stima che negli insediamenti spontanei vivano complessivamente 1.200-1.500 persone. Lo dice lo studio realizzato dall’équipe del progetto “Mediazioni Metropolitane. Studio e sperimentazione di un modello di dialogo e intervento a favore dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in situazione di marginalità”, co-finanziato dal Fondo Europeo per i Rifugiati 2008-2013 e promosso dalla Crs-Caritas di Roma in partenariato con l’Associazione Centro Astalli di Roma, la Solidarietà Caritas Onlus di Firenze e la Fondazione Caritas Ambrosiana di Milano. Durante l’indagine sono stati intervistati 520 richiedenti e titolari di protezione internazionale e sono stati svolti sopralluoghi e colloqui in 8 insediamenti spontanei a Roma, Milano e Firenze, realizzando la più esauriente ricerca sul fenomeno fra quelle fin qui svolte.

60 mila tra richiedenti asilo e rifugiati: mancanza di fiducia verso Stato. Secondo le fonti ufficiali (ultimi dati dell’Istat) al 1° gennaio 2011 erano presenti in Italia oltre 56.300 persone richiedenti o titolari di asilo o in possesso di protezione umanitaria. Sulla base dei dati provvisori forniti dalla  Commissione nazionale per il diritto di Asilo, però, si può stimare che a questa cifra vadano aggiunte almeno altre 4.500 persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria e 5.562 a cui è stata riconosciuta la Protezione umanitaria nel corso del 2011. Il numero totale supera quindi le 60 mila unità. Dai colloqui effettuati nel corso di questa indagine, però, è emerso un diffuso e esplicito scetticismo rispetto alla possibilità di trovare negli enti territoriali deputati una risposta ai loro bisogni. Più in generale, i rifugiati (oltre il 75% degli intervistati è titolare di protezione internazionale e l’11,3% ha ottenuto la protezione umanitaria) sembrano aver maturato una profonda mancanza di fiducia nei confronti di uno Stato che “commette ingiustizie” e non riesce a “garantire ai rifugiati gli stessi diritti che hanno negli altri paesi europei”. Questo atteggiamento è, secondo i ricercatori, allo stesso tempo “causa ed effetto dei fenomeni di esclusione e autoesclusione” e “non è purtroppo sorprendente, né del tutto immotivato”. 

Posti disponibili “insufficienti”, l’88% non lavora e il 42% conosce poco l’italiano. Il sistema di accoglienza italiano, allo stato attuale - denuncia il report - “di fatto non garantisce un’adeguata accoglienza a tutti coloro che ne avrebbero diritto: troppo disomogenee sono le misure messe in campo, troppo episodici e parziali gli interventi per l’integrazione. I posti disponibili sono vistosamente insufficienti, la capacità di finanziare percorsi individuali e mirati di sostegno all’integrazione è limitata rispetto alla domanda”. L’indagine sottolinea quindi che è necessario “fare di più, puntando soprattutto sulle misure che favoriscano l’inclusione lavorativa (oltre l’88% degli intervistati attualmente non è occupato) e la formazione (il 42% conosce troppo poco la lingua italiana). Ma più urgente è ristabilire un dialogo con queste persone, ricostruire il rapporto di fiducia indispensabile alla riuscita di qualunque percorso”. 

Basta “emergenze”: necessario Sistema accoglienza nazionale per 30 mila persone. Dito puntato anche verso il ciclico ripetersi di “emergenze”, affrontate con la moltiplicazione di servizi di bassa soglia gestiti centralmente dallo Stato, che il più delle volte non hanno visto alcun coinvolgimenti degli Enti locali sul cui territorio le persone venivano dislocate. Secondo l’indagine, circa il 37% degli intervistati è arrivato in Italia con gli sbarchi del 2008 e oggi vive in un insediamento spontaneo, questo vuol dire che gli interventi subitanei e non concertati aumentano significativamente la probabilità che il titolare di protezione internazionale “esca dai radar” dei percorsi di integrazione socio-economica. La recente “emergenza” del 2011-2012 legata agli esodi dal Nord Africa, pone, una situazione analoga a quella del 2008. Nel campione analizzato, la percentuale di persone entrate nel 2011 (anno in cui si è verificato un flusso eccezionale per effetto della “Primavera Araba”), risulta contenuta, poiché costoro sono ancora ospitati nelle strutture di accoglienza. Ma “la dispersione non governata di titolari di protezione internazionale non ancora in grado di inserirsi in piena autonomia sui territori rischia di tradursi in una concentrazione ulteriore di persone nei grandi centri urbani, negli insediamenti spontanei già esistenti o in insediamenti nuovi” sottolinea la ricerca. 

Secondo i curatori della ricerca “le risposte messe in campo per superare la crisi degli arrivi dalla Libia costituiscono un’occasione per dotare l’Italia, finalmente, di un Sistema di accoglienza capace di risposte sufficienti per tutti quelli che richiedono protezione in Italia”. È fondamentale che i posti in accoglienza attivati grazie ai fondi del Dipartimento della Protezione Civile non vengano dismessi, ma contribuiscano a costituire, insieme ai progetti Sprar e a quelli delle città metropolitane, un unico Sistema nazionale di accoglienza capace di ospitare 25-30.000 persone contemporaneamente. A questo andrebbe affiancato un sistema di monitoraggio nazionale dei percorsi sociali di tutti i richiedenti e titolari di protezione internazionale sul territorio, attraverso una banca dati che consenta il raccordo tra i diversi territori di accoglienza e minimizzi il rischio di assenza/duplicazione di interventi dovuti a mancanza di coerenza e consequenzialità del percorso di ciascuno. “Una riforma decisa dell’intero sistema è un presupposto indispensabile per non svuotare di senso e di efficacia gli interventi che le singole amministrazioni locali sono chiamate a predisporre per rispondere alle emergenze che attualmente insistono sui loro territori”. (ec) 

 

Lanci successivi


 

Rifugiati: a Roma la “situazione più problematica”, 1.500 negli insediamenti spontanei

Studio "Mediazioni metropolitane". Si tratta di situazioni di estrema marginalità sociale: vivono in piccole occupazioni o "in strada". A Firenze 150 persone negli insediamenti spontanei. A Milano non ci sono "grandi" insediamenti come a Roma

La presenza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale non è omogenea nel territorio italiano, vi è infatti una forte concentrazione in alcune regioni e città. Secondo i dati dell’Istat, il 16% ha avuto il rilascio del permesso di soggiorno nel Lazio (di cui il 13,9% a Roma), il 14,1% in Lombardia (di cui il 5,5% a Milano) e il 5,7% in Toscana (di cui il 2,8% a Firenze). Questi dati, però, sono solo indicativi dei territori, perché spesso le persone si spostano e il luogo di rilascio del permesso di soggiorno non coincide necessariamente con quello di effettiva residenza. Nonostante questo la distribuzione territoriale dei richiedenti e titolari di protezione internazionale nella città e regioni italiane non ricalca fedelmente quella complessiva dei cittadini non comunitari regolarmente presenti in Italia. Lo dice la ricerca “Mediazioni Metropolitane Studio e sperimentazione di un modello di dialogo e intervento a favore dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in situazione di marginalità”, presentata oggi a Roma. L’indagine si è focalizzata in particolar modo sulle condizioni di vita e sulle problematiche delle persone titolari e richiedenti la protezione internazionale che attualmente vivono in insediamenti spontanei di Roma, Firenze e Milano.

Emblematico è il caso di Roma, che rappresenta il luogo di rilascio del permesso di soggiorno per l’8,5% di tutti i cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti in Italia, e per ben il 13,9% dei richiedenti e titolari di protezione internazionale. Qui la situazione è la più problematica: si stima che negli insediamenti spontanei vivano complessivamente da un minimo di 1.200 a un massimo di 1.500 persone. A Firenze nei due insediamenti analizzati abitano circa 150 persone. A Milano, invece, non ci sono “grandi” insediamenti spontanei come a Roma. “Negli anni – spiega il rapporto - l’intento perseguito dall’amministrazione è stato quello di non consentire il consolidarsi di nuovi microinsediamenti irregolari, intervenendo immediatamente. Certamente però nella città il numero di coloro che vivono in altre piccole occupazioni o “in strada” è di gran lunga superiore, come testimoniato anche dalle nostre interviste e dall’affluenza dei migranti presso i centri di ascolto della Caritas e delle altre organizzazioni del terzo settore, ma anche dalle presenze nelle strutture allestite nell’ambito del Piano Freddo”. La Sicilia, la Puglia e la Calabria, invece, si confermano essere territori di “transito”, per l’ingresso, la richiesta del permesso di soggiorno, anche se in alcuni periodi dell’anno i migranti vi tornano per un lavoro stagionale, spesso in condizioni di irregolarità e sfruttamento. 

Secondo l’indagine un gran numero di richiedenti e soprattutto titolari di protezione internazionale vivono nelle nostre città una “preoccupante condizione di intrappolamento in una situazione di estrema marginalità sociale”. A complicare il quadro si aggiunge la diffusa “discordanza tra percorsi teorici di accoglienza nel Paese e prassi operative”. L’emergenza alloggiativa rilevata nei tre contesti studiati ha infatti esplicitato i fenomeni di frammentazione territoriale. E l’emergenza di “modelli di cittadinanza sociale degli immigrati in Italia strutturati e definiti non tanto dalle regole nazionali, ma piuttosto dagli orientamenti politici, dalle culture locali di welfare, dalle risorse già presenti sui territori”. “Fra costrizioni istituzionali, difficoltà di definire un’agenda politica sul tema e ambivalenza del tema nell’opinione pubblica – spiegano i ricercatori - le politiche per i rifugiati stanno risentendo di problemi non tanto di definizione di un modello nazionale unico di intervento ma di prassi operative lontane dal modello stesso, e inoltre mancano obiettivi e metodologie di intervento condivise. Le attuali prassi operative risultano scarsamente coordinate ed emerge forte la necessità di arrivare ad un sistema unico nazionale, anche con tipologie di strutture differenti, ma coordinato e interagente”. (ec) 

 


 

 

Rifugiati, "sistema di accoglienza in crisi"

Studio Mediazioni Metropolitane. I posti disponibili sono vistosamente “insufficienti, la capacità di finanziare percorsi individuali e mirati di sostegno all’integrazione è limitata rispetto alla domanda”

 

Il crescente numero di richiedenti e titolari di protezione internazionale ha determinato una crisi del sistema di accoglienza e delle misure di integrazione nelle grandi città: i posti disponibili sono vistosamente “insufficienti, la capacità di finanziare percorsi individuali e mirati di sostegno all’integrazione è limitata rispetto alla domanda”. E se nel 2011 si è registrato un flusso record di migranti, nel 2012 si attende un numero pari se non superiore, che può mettere nuovamente in difficoltà il sistema. Lo dice l’indagine “Mediazioni Metropolitane. Studio e sperimentazione di un modello di dialogo e intervento a favore dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in situazione di marginalità”, co-finanziato dal Fondo Europeo per i Rifugiati 2008-2013, e promosso dalla CRS-Caritas di Roma in partenariato con l’associazione Centro Astalli di Roma, la Solidarietà Caritas Onlus di Firenze e la Fondazione Caritas Ambrosiana di Milano.

 La ricerca si focalizza su un peculiare punto di passaggio: il 2011 anno in cui si è registrato un eccezionale flusso di migranti e richiedenti asilo, la cui sorte ancora oggi non è stata chiaramente definita. E nel 2012 – spiegano -si attende un flusso di arrivi uguale o superiore all’anno passato.“Le problematiche dell’accoglienza e della prevenzione per coloro che vivono in Italia da poco e per coloro che arriveranno si affiancano a quelle dei titolari e richiedenti protezione internazionale che si trovano in Italia ormai da diversi anni e che attualmente vivono in insediamenti spontanei, poiché il nostro Paese, nonostante la presenza di alcune buone pratiche, non è stato complessivamente in grado di attuare politiche di accoglienza e integrazione realmente efficaci, a fronte di un fenomeno che ha oramai assunto un carattere sistemico – si legge nell’indagine -. Le motivazioni sono molteplici: tra queste basti citare la frammentazione e la sovrapposizione di funzioni e competenze, la mancanza di percorsi certi e di metodologie condivise di integrazione e di inserimento socio-lavorativo”.

Secondo lo studio negli anni si è assistito al ciclico ripetersi di “emergenze”, affrontate con la moltiplicazione di servizi di bassa soglia gestiti centralmente dallo Stato, che il più delle volte non hanno visto alcun coinvolgimenti degli enti locali sul cui territorio le persone venivano dislocate. Il 37% degli intervistati è arrivato in Italia con gli sbarchi del 2008 e oggi vive in un insediamento spontaneo, ciò significa “che tali interventi subitanei e non concertati aumentano significativamente la probabilità che il titolare di protezione internazionale “esca dai radar” dei percorsi di integrazione socio-economica”. Anche la più recente “emergenza” del 2011-2012, legata agli esodi dal Nord Africa, pone una situazione analoga a quella del 2008. Molti sono ancora ospitati nelle strutture di accoglienza ma “la dispersione non governata di titolari di protezione internazionale non ancora in grado di inserirsi in piena autonomia sui territori rischia di tradursi in una concentrazione ulteriore di persone nei grandi centri urbani, negli insediamenti spontanei già esistenti o in insediamenti nuovi”.

Secondo la ricerca le risposte messe in campo per superare la crisi degli arrivi dalla Libia costituiscono di fatto un’occasione per dotare l’Italia, finalmente, di un Sistema di accoglienza che sia capace di risposte sufficienti per tutti quelli che richiedono protezione in Italia. Per farlo bisogna agire su diversi punti. Innanzitutto dando le corrette competenze all’amministrazione centrale, a quelle regionali e locali, alle Forze dell’Ordine, agli Enti gestori, integrandole in un progetto di regia forte e unica. “Concretamente, nella gestione dell’Emergenza Nord Africa 2011, è fondamentale, ad esempio, che i posti in accoglienza attivati grazie ai fondi del Dipartimento della Protezione Civile (D.P.C.) non vengano dismessi, ma contribuiscano a costituire, insieme ai progetti Sprar e a quelli delle città metropolitane, un unico Sistema nazionale di accoglienza capace di ospitare 25-30.000 persone contemporaneamente” - spiegano. Inoltre bisogna predisporre un sistema di monitoraggio nazionale dei percorsi sociali di tutti i richiedenti e titolari di protezione internazionale sul territorio, attraverso una banca dati che consenta il raccordo tra i diversi territori di accoglienza. “Una riforma decisa dell’intero sistema è un presupposto indispensabile per non svuotare di senso e di efficacia gli interventi che le singole amministrazioni locali sono chiamate a predisporre – aggiungono - per rispondere alle emergenze che attualmente insistono sui loro territori. Su questo aspetto, alla luce della ricerca-azione condotta, gli Enti proponenti raccomandano alcuni principi di orientamento”. Lo studio sottolinea inoltre la necessità di ricorrere alla buona pratica della concertazione territoriale; investire in azioni che consentano di superare le difficoltà specifiche degli abitanti della comunità di richiedenti e titolari di protezione internazionale rispetto alla ricerca del lavoro; evitare di predisporre, in occasione di sgomberi di insediamenti abusivi, semplici trasferimenti degli occupanti in strutture di accoglienza di bassa soglia dove le persone non vengono inserite in alcun percorso di integrazione; progettare percorsi di intervento sociale che accompagnino i rifugiati e richiedenti protezione internazionale che costruiscano socialmente la fiducia molto spesso messa in dubbio. (ec) 

 

 


Fonte: Redattore Sociale