Seconda puntata del reportage ''Una città vista di spalle'', realizzato da un nostro collaboratore che ha vissuto in strada insieme agli homeless di Roma. La storia di Ari, giovane curdo alla ricerca di un sogno: Londra.
È già mezzanotte quando mi sistemo sotto il portico all'angolo con via Cavour, dove ho già dormito la notte prima. Ho appena rifatto il letto con un grande cartone bianco, pulito e a doppio strato. Mi infilo nel sacco. Intorno a me la numerosa famiglia dell'altra sera, lo stesso vecchietto, il tipo con la febbre e al mio fianco un giovane dell'est, biondo, forse polacco. Dopo pochi minuti sento proprio quest'ultimo che inizia a rivolgersi in un pessimo italiano a qualcuno, invitandolo a venire a dormire vicino a lui, perché fa freddo. Insiste e ripete che è freddo. Curioso mi affaccio dal sacco, come una tartaruga dal guscio, e do un occhio. Incredulo vedo due piedi nudi a pochi metri da me, frusciare su un cartone marrone. Guardo meglio e mi accorgo che quei due piedi rossi dal freddo appartengono ad un giovane uomo, vent'anni compiuti da poco, che la strada sembra averla incontrata stasera la prima volta. Se ne sta sulle sue, distante da tutti. Sembra venuto da lontano, se non altro per l'abbigliamento: indossa un paio di pantaloni di nylon grigi ed una giacca a vento troppo leggera per il freddo che fa. Capelli castani, riccioli lunghi fino alle spalle, occhi verdi, trema dal freddo. Continuo a guardare quei piedi, e a non capire perché si sia tolto scarpe e calzini, che ha appoggiato lì accanto. Lo chiamo. Gli dico di avvicinarsi. Non mi risponde, ma con un timido gesto della mano indica se stesso guardandomi con aria interrogativa. Rinnovo l'invito sventolando le mani nell'aria. Si fida e arriva con il suo cartone, zoppicando vistosamente. Non ha borse con sé, se non un leggero marsupio, strano, penso. Inizio a parlargli, gli dico che è meglio se dorme vicino a me, che stia tranquillo si può fidare, e che… mi fermo… nei suoi occhi un punto di domanda. Non parla italiano. Ok. Can you speak english? No. Français? Nemmeno. Gli chiedo allora da dove viene. Ovviamente non capisce la mia domanda ma inizia a dire qualcosa, prova a ripeterlo in diverse lingue a me sconosciute, finché riconosco la parola 'Iraq. Tatakallamu 'l-lugha 'l-'arabiyah? Na'am? Yalla! É curdo, viene dal nord dell'Iraq, riusciamo a scambiarci due parole con quel poco di arabo che ricordo. Parla anche curdo, farsi e greco, ma di quelle lingue io sono un perfetto analfabeta, come lui delle mie. Comunichiamo su un filo sottile fatto di gesti, sguardi e parole pescate qua e là, tra l'arabo, il greco e l'inglese.
Mi fa capire che ha passato gli ultimi tre anni in Grecia clandestinamente. Lavorando in nero come manovale, ha messo da parte abbastanza denaro per inseguire una speranza: l'Inghilterra. Ha degli amici curdi a Londra e vuole crearsi una vita serena, lontano da casa, Mosul, oggi teatro di guerra. Per far questo ha comprato un pacchetto di viaggio, pagato migliaia di euro, che comprende nel prezzo il viaggio in nave dalla Grecia alla Puglia, nascosto in un container, e un contatto a Parigi, che gli indicherà come e dove montare sul retro dei camion, a insaputa dell'autista, e viaggiare nascosto attraverso il Tunnel fino a Dover. Nel pacchetto sono comprese due corse, chi organizza i viaggi sa che spesso si viene respinti alla frontiera. Lo stesso è successo anche ad Ari, questo il suo nome. Era arrivato in Puglia tre mesi fa, ma poi è stato fermato dalla polizia ed espulso. Questo è il suo secondo tentativo. Lo sbarco è andato bene, ma quando è saltato giù dal container per fuggire è caduto male, il piede gli si è girato e si è procurato una pessima distorsione alla caviglia. In quelle condizioni ha preso un treno a Foggia ed è arrivato a Roma stasera. Domani mattina vuole partire per Parigi. Intanto a malapena cammina. La caviglia è molto gonfia, si è tolto le scarpe perché gli stringevano troppo.
Continuiamo a parlare un po' a gesti e un poco a parole, in questa situazione surreale che è il bordo di un marciapiede dietro la stazione. Clacson. Gli dico di non preoccuparsi perché domani lo accompagno alla stazione a comprare il biglietto e gli faccio da interprete. La nostra conversazione è interrotta ad un tratto dall'arrivo di una giovane ragazza inglese, esile, bionda, molto alta. Ha ancora il fiato corto, si rivolge direttamente ad Ari. Era passata da lì poco prima ed è ritornata indietro passando per la farmacia. Ha portato ad Ari un sacco lenzuolo, un mazzo di carte, uno yogurt, crema per il viso, burro cacao e due buste auto-riscaldanti per la notte. Continua a spiegargli in inglese come usare il tutto, poi dopo cinque minuti sparisce. Intanto la notte si fa sempre più fredda e il vento non accenna a calare. Poco distante le macchine dell'AMA spazzano le strade, prima che passino le cisterne dell'acqua a lavarle. Rumore. Gli presto due calze di lana che ho con me nello zaino. Si sistema nel sacco e ci mettiamo a dormire. Dopo non più di tre ore, saranno le cinque, ci alziamo. Il freddo è davvero pungente e non si riesce più a dormire. Dopo un po' provi come un sentimento di ansia, inizi a sentire il formicolio salire dai piedi fino alla pancia, senti il bisogno di alzarti, non puoi più stare sdraiato, devi camminare, hai paura. Ci diamo giusto il tempo per stirare la schiena e fare schioccare le ossa e poi di corsa, per modo di dire, ce ne andiamo lungo via Giolitti diretti al bar Moka, che ha appena aperto. Lungo la strada corpi buttati per terra intorno alla stazione e giù fino a Santa Maria Maggiore. Certi bevono così tanto che perdono la percezione del caldo e del freddo, finché crollano per il sonno e si lasciano cadere dove si trovano, magari su una panchina in un parco, in mezzo ad un marciapiede, o sui gradini di una chiesa, senza coperte, a volte senza nemmeno un cartone sotto la pancia, la bocca che bacia il cemento. Non so immaginare i brividi al mattino al loro risveglio, dopo ore passate all'addiaccio vestiti alla meglio.
Non ho soldi con me ma se vuole può ordinare la colazione. Ari vuole offrirla anche a me, insiste che accetti. Due tè alla menta. Parliamo. Appena arriva a Parigi chiamerà il suo contatto che gli indicherà dove partono i camion per Dover, attraverso il tunnel della Manica. Studierà il posto e gli orari e poi si nasconderà in uno dei container, di nascosto, durante le operazioni di carico. Quando alla fine sentirà il camion fermarsi, vorrà dire che avrà passato la Manica, allora scenderà e si consegnerà alla polizia chiedendo asilo politico come profugo di guerra. Certo che con la caviglia messa così tutto è più difficile, starà qualche giorno in più a Parigi, per rimettersi. Passare qualche giorno in più a Parigi significa però passare qualche giorno in più in mezzo alla strada. Non avendo documenti regolari con sé troverà chiuse tutte le porte di alberghi, ostelli e pensioni. E ogni giorno in più passato per strada significa il rischio di essere derubato o fermato dalla gendarmerie ed espulso. Ma non c'è alternativa, dal momento che non ha i requisiti per ottenere un regolare visto d'ingresso in Inghilterra. Ridendo spera che il carico non si sposti durante il viaggio, magari durante una manovra azzardata, schiacciandolo in un angolo, e che l'aria del container basti per farlo respirare la durata della corsa. Tuttavia il primo problema è il suo treno. Se al passaggio della frontiera con la Francia gli chiedono i documenti tutto sarà finito.
Verso le otto andiamo a comprare il biglietto, gli faccio da interprete. Milano Parigi, prima classe perché lì, gli spiego, quasi mai chiedono i documenti d'identità. Il treno parte alle dieci. Così andiamo in sala d'attesa per ripararci dal freddo e magari chiudere gli occhi anche solo per poco. Nelle sale d'attesa nelle grandi stazioni vige la regola che senza biglietto non si può entrare, così devo insistere con la signorina all'ingresso che alla fine concede anche a me alcuni minuti di riparo dal freddo pungente, ma solo perché la sala è semivuota. Giunta l'ora lo accompagno al binario, nel frattempo è uscito il sole a scaldare i vapori della mattina in mezzo al pullulare di gente e ai toni di grigio dei treni. L'eurostar per Milano è arrivato, l'aiuto a salire. Con gli occhi un po' lucidi, preoccupato gli auguro buona fortuna. Senza conoscere quello che dico sembra capire, sorride. Affacciato al finestrino e coperto dalla voce dell'altoparlante che annuncia numeri, orari e binari, mentre i portelloni si chiudono, mi risponde "grazie", una delle poche parole che ci siamo insegnati stanotte.