Redditi dimezzati e rischio povertà per le donne italiane in pensione


Pubblicato il 27.10.2008 in News Sociale

Sono le conclusioni della ricerca Inca Cgil presentata oggi a Bologna. Caldarini: ''Per cambiare le cose bisogna facilitare il lavoro femminile: servono più asili nido e più congedi parentali''.
 
Andare in pensione? Per le donne italiane significa più che dimezzare il proprio reddito. È quanto emerge dalla ricerca “Le pensioni delle donne in Europa”, curata dall'Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa e presentata oggi alla Camera del Lavoro di Bologna. “In Italia la pensione delle donne è pari in media al 46% dell"ultimo stipendio – spiega il professor Carlo Caldarini, direttore dell’Osservatorio –, un dato sensibilmente inferiore a quello maschile, che arriva al 64%”. La situazione italiana è una delle più impari in Europa, dove in media il tasso di sostituzione pensione/reddito da lavoro è al 50% per le donne e al 54% per gli uomini. La condizione economica si intreccia poi con i dati anagrafici: “Le donne vivono più a lungo degli uomini – continua Caldarini – e oggi costituiscono la maggior parte della popolazione anziana: il 60% degli over 65 e quasi i due terzi degli over 75”. Alla discriminazione si aggiunge quindi la solitudine, un fattore che rischia di portare sotto la soglia di povertà le oltre 17 milioni di donne europee sopra i 75 anni che vivono da sole.

La ricerca Inca Cgil, che ha elaborato dati Eurostat relativi al 2006 e al 2007, tenta di spiegare le cause di questa disparità “guardando a tutto l’arco della vita, non solo al momento della pensione”. Si scopre allora che le donne europee studiano e lavorano più degli uomini – se si considerano anche le cure per la famiglia – ma non raggiungono le posizioni e le retribuzioni maschili. “Dal momento in cui finiscono gli studi – spiega Caldarini – per le donne inizia un percorso a ostacoli, eredità di un vecchio modello industriale che vede ancora l’uomo come capofamiglia e unica fonte di reddito”. E così il tasso di occupazione femminile si ferma al 58% in Europa (contro il 72% di quello maschile) e al 47% in Italia (contro il 71%). “Questo non significa però che le donne lavorino meno – precisa il ricercatore –: il fatto è che la loro vita professionale è frammentata e subisce interruzioni a causa del lavoro domestico e della cura dei figli e dei familiari”. Il lavoro femminile, in effetti, è molto spesso part-time: in Europa il 31% delle donne ha un impiego a orario ridotto, contro l’8% degli uomini. Tutti fattori che ostacolano l’ascesa femminile a posizioni dirigenziali e che spiegano le differenze nelle retribuzioni rispetto agli uomini: il 15% in meno in Europa, il 9% in meno in Italia.

“Ragioni economiche, sociali e culturali si intrecciano in un serpente che si morde la coda – conclude Caldarini –: in Italia si dice che le donne fanno meno figli perché lavorano, ma in realtà il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese è fra i più bassi d’Europa. In Svezia, dove il 72% delle donne lavora, nascono più bambini che in Italia”. Fra gli esempi virtuosi non c’è solo il nord Europa, ma ci sono anche Paesi che non ti aspetti come la Slovenia. Sistemi che negli ultimi vent’anni sono stati capaci di rinnovarsi, cambiando le politiche sociali. “Gli strumenti adottati sono principalmente tre – riassume Caldarini –: più asili nido, più congedi parentali e una maggiore responsabilità degli uomini nella cura dei figli, tramite una riforma della disciplina su separazioni e divorzi”.
 

 

 

Redattore Sociale


Autore: ps