QUEI POVERI INVISIBILI E I DOVERI DELLO STATO
La colonnina di mercurio sotto allo zero e le strade innevate, forse più che il Natale o i Re Magi, ci fanno in questi giorni pensare ai senzatetto che, sempre più numerosi, vivono nelle nostre città. Nei centri urbani, nelle strade dove si concentra la ricchezza, offrono la manifestazione più stridente e insieme più appariscente di povertà.
Accanto ai loro giacigli di cartone, vediamo infatti tutti i loro patrimoni: una coperta, un berretto, qualche sacchetto di plastica, scatole di latta, una bottiglia.
Ma sono anche “poveri invisibili” perché non ci sono statistiche su di loro, non sappiamo quanti siano, da dove vengano, né cosa li abbia ridotti in quelle condizioni e osa facciano per sopravvivere.
Non riusciamo neanche a capirli, non sappiamo se considerarli degli anticonformisti (come nelle canzoni di Fabrizio De Andrè), degli ubriaconi, dei malati di mente oppure delle persone costrette a un’esistenza senza fissa dimora da una serie di eventi avversi, largamente indipendenti dalla loro volontà.
Da noi sono più invisibili che altrove.
In altri paesi da anni esistono censimenti dei senza tetto, possiamo accedere a conteggi per quanto possibile accurati. Sarebbero, ad esempio, 750.000 negli Stati Uniti, quasi 100.000 in Australia. Contarli è fondamentale anche solo per pensare a cosa fare per aiutarli. Ancora più importante per valutare la scala degli interventi è capire quanti tra loro sono in qualche modo integrati nel tessuto sociale e, oltre ad avere bisogno di aiuto, sono disposti ad essere aiutati. Grazie al lavoro di due giovani ricercatrici, Michela Braga e Lucia Corno, alle borse Riccardo Faini e al contributo di 300 volontari, abbiamo finalmente un censimento dei senza fissa dimora nella città di Milano. Sono circa 4000. Poco più di 400 dormono in strada, gli altri sono distribuiti per due terzi in baracche e roulotte e per un terzo nei dormitori.
Sono molti di più di quanti pensassimo e molti di più di solo qualche anno fa. La città dell’Expo2015 (che non prevede alcun intervento di edilizia popolare!) ha ormai lo stesso rapporto fra senza tetto e popolazione degli Stati Uniti. Se tutta Italia fosse come Milano, nel nostro paese ci sarebbero 150.000 senza fissa dimora, quasi dieci volte quelli stimati nel 2001 dalla Fondazione Zancan per la Commissione d’indagine sull’Esclusione Sociale.
Il dato più rilevante messo in luce dal censimento dei senza tetto è che si tratta in moltissimi casi di persone che mantengono un rapporto con il tessuto sociale e con il mercato del lavoro. In quattro su cinque, prima di perdere la casa e finire in strada, avevano un lavoro, per lo più come operai, badanti o artigiani. È stata proprio la perdita del lavoro o il fallimento dell’attività in proprio, l’evento scatenante (c’è sempre un concorso di cause quando si perde la casa) che li ha portati sulla strada. Più di uno su due tra chi dorme in strada svolge tuttora, per sopravvivere, un qualche lavoro saltuario (dal volantinaggio alla vendita di giornali agli angoli delle strade). Sono persone relativamente giovani (età media 45 anni) e con almeno dieci anni di istruzione e un diploma di scuola secondaria, soprattutto tra gli immigrati.
Il 5 per cento ha addirittura una laurea. Questo ci dice che una fetta consistente dei senza tetto potrebbe rispondere ad interventi di sostegno e aiuti nella ricerca di un impiego stabile. In molti casi, quella dei senza dimora, è una condizione temporanea, certamente non pianificata per durare a lungo. Si comincia a dormire per strada pensando di rimanerci meno di un mese. Poi si finisce per restarci molto, molto più a lungo: cinque anni in media. Molti senzatetto non hanno avuto alcun aiuto dallo Stato quando hanno perso il lavoro dati i buchi, ormai finalmente riconosciuti da tutti, del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Neanche se il Comune concedesse loro una residenza fittizia e riempissero i formulari Isee potrebbero ricevere la social card, dato che hanno quasi tutti meno di 65 anni e non hanno figli con meno di 3 anni oppure non sono cittadini italiani.
Come notato dalla Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora (www.fiopsd.org), i requisiti di accesso alla social card sembrano studiati apposta per escludere la maggioranza dei poveri e soprattutto “i poveri fra i poveri”.
La Chiesa e la Caritas, assieme ad alcuni Comuni e molte organizzazioni di volontariato, da decenni forniscono assistenza ai senzatetto e spesso sono gli unici ad aiutare chi perde il lavoro, prima ancora che la casa. Il Cardinale Dionigi Tettamanzi, nella sua omelia di Natale, ha anche annunciato l’intenzione della Curia di Milano di creare un fondo per aiutare chi perde il lavoro e ha messo a disposizione di questo fondo 1 milione di euro. È un gesto di solidarietà molto bello, ma “una goccia nel mare della necessità”, come riconosciuto dallo stesso Tettamanzi.
In effetti, nella provincia di Milano ci sono già oggi più di 50.000 persone che hanno perso il lavoro e non ricevono sussidi, cui andrebbero meno di 2 euro a testa al mese attingendo alle risorse messe a disposizione dal Cardinale. Il fondo Tettamanzi è stato finanziato in buona parte con l’8 per mille, tasse che possono essere devolute dal contribuente alla Chiesa cattolica e altre confessioni religiose riconosciute, anziché allo Stato. È un flusso di quasi un miliardo di euro all’anno. La stessa social card, che non arriva ai più poveri, arriva invece a molti frati e suore, che risultano nullatenenti anche quando vivono in comunità cui non mancano certo risorse.
Lo Stato non dovrebbe mai abdicare alla sua funzione primaria di aiutare direttamente i poveri e i disoccupati. Non è una funzione che può essere delegata alla Chiesa, compensandola poi in una varietà di modi non sempre trasparenti.
Per intervenire efficacemente nel mare delle necessità ci vogliono aiuti finanziati da contributi obbligatori e trasferimenti basati su regole uniformi. La Chiesa, il volontariato e le stesse buone pratiche, che esistono, perché esistono, a livello locale, sono inevitabilmente selettive.
Non hanno i mezzi per raggiungere tutti. Bene allora che intervengano per integrare l’assistenza di base offerta dall’operatore pubblico. Bene che forniscano anche quei tipi di assistenza che lo Stato fatica ad offrire e che sono non meno importanti per chi vive ai limiti della marginalità sociale.
Ma per favore, non confondiamo i ruoli.
Fonte: La Repubblica