I dati Istat mostrano che, nonostante la crisi, l'incidenza della povertà negli ultimi dieci anni è rimasta sostanzialmente ferma all'11 per cento. Sembra un paradosso. Ma l'analisi dell'incidenza di povertà andrebbe sempre accompagnata almeno dall'esame dei movimenti della soglia di povertà. E se si rivaluta la soglia del 2008 per l'inflazione registrata negli anni successivi, nel 2011 si registra un incremento dell'incidenza di circa un punto e mezzo percentuale, cioè un milione di poveri in più. La questione della capacità d'acquisto della soglia di povertà relativa.*
A ridosso della pausa estiva, l’Istat ha diffuso i dati relativi alla povertà in Italia nel 2011. Pur trattandosi di dati molto attesi, visto il perdurare della crisi economica e finanziaria e i visibili effetti sul benessere delle famiglie, la grande stampa nazionale non ha dato eccessivo rilievo alla notizia, relegandola nelle pagine interne. (1) Il punto è che i dati sulla povertà non fanno notizia, o meglio, non fanno la notizia “attesa”, a meno che non se ne forzi la lettura: infatti, a fronte di una percezione diffusa di impoverimento e di effetti nefasti della crisi, la statistica ufficiale non registra alcuna variazione del fenomeno. L’incidenza della povertà è rimasta sostanzialmente ferma per tutto il passato decennio all’11 per cento a livello nazionale. (2) In particolare, negli anni della grande crisi, non si è osservata alcuna tendenza alla crescita, tant’è che l’incidenza del 2011 (11,1 per cento) è leggermente inferiore a quella del 2008 (11,3 per cento). Sembra di essere di fronte a un paradosso: come possono politici, sindacalisti, commentatori, esperti, “uomini della strada”, sbagliarsi tutti insieme nel puntare il dito contro la piaga della povertà come fenomeno incombente se invece nulla sembra cambiare?
LA DEFINIZIONE DELLE SOGLIE
In realtà, parte del paradosso è dovuto, a parere di chi scrive, a una lettura parziale dei dati. Qui di seguito, in particolare, si discuterà della necessità di accompagnare sempre l’analisi dell’incidenza di povertà almeno con l’esame dei movimenti della soglia di povertà. Preliminarmente, però, è necessario chiarire cosa misura un indicatore di povertà. Tipicamente, nei paesi economicamente più sviluppati, la povertà è misurata con indicatori di natura relativa, caratterizzati dall’individuazione dei poveri a partire da un confronto con le condizioni di benessere prevalenti in un dato momento in una data popolazione, condizioni opportunamente rappresentate da un indicatore di sintesi della distribuzione dei redditi o dei consumi (la media o la mediana). (3) Chi è “troppo” distante dalle condizioni prevalenti è considerato povero. Ad esempio, nell’indicatore Istat, si considera povera una famiglia di due persone quando consuma meno della media pro-capite dei consumi nazionali. Nel caso del rischio di povertà adottato dall’Unione Europea, invece, è povero chi ha un reddito (equivalente) inferiore al 60 per cento di quello mediano nazionale. Ma al di là delle differenze tra gli indicatori appartenenti a questa famiglia di misure, quel che li accomuna è che a contare non sono le condizioni materiali dei poveri, ma la loro distanza dalle caratteristiche della maggior parte della popolazione. Per loro natura, quindi, tali indicatori fanno riferimento a una soglia di povertà che si muove nel tempo a seconda dei cambiamenti nelle condizioni di benessere generale.
Questa caratteristica è del tutto ragionevole, perlomeno se si ritiene che in società storicamente caratterizzate da enormi progressi nelle condizioni materiali non si possa limitare la nozione di povertà solo al mancato raggiungimento di un livello di sussistenza. Ma che succede quando la crescita economica si ferma e la crisi si prolunga nel tempo? Supponiamo, come caso di scuola, che i redditi di tutti si dimezzino; gli indicatori di povertà relativa, pur in presenza di un impoverimento così massiccio, non mostrerebbero alcuna variazione, proprio perché si tratta di un impoverimento generalizzato. Anzi, laddove esistono garanzie di reddito minimo fornite dai sistemi di welfare (che si tratti di pensioni, ammortizzatori sociali o reddito minimo in senso stretto), in recessione le condizioni dei poveri potrebbero peggiorare relativamente meno che nel resto della popolazione e quindi potrebbe osservarsi, paradossalmente, una riduzione del numero dei poveri. Per questo è importante occuparsi anche dei movimenti della soglia di povertà.
COSA È SUCCESSO IN ITALIA
Cosa è successo dunque in Italia alla soglia di povertà? Nel 2011 era fissata per una famiglia di due persone a 1.011 euro mensili; all’inizio della crisi, nel 2008, era di 1.000 euro. L’incremento registrato, evidentemente, non è neanche sufficiente a compensare l’aumento del costo della vita. Se infatti rivalutiamo la soglia del 2008 per l’inflazione registrata negli anni successivi, nel 2011 otterremmo una soglia di povertà di 1.052 euro mensili. Considerando la differenza su base annua, è come se avessimo reso più stringente il requisito di povertà richiedendo alle famiglie di due persone circa 500 euro in meno all’anno per poter essere classificate come povere. Non disponiamo dei microdati per poter quantificare l’effetto sull’incidenza di povertà, ma è di sicuro rilevante, se si tiene conto del fatto che tra la soglia e il 10 per cento in più della stessa c’è il 3,7 per cento della popolazione (i “quasi poveri” secondo la definizione Istat). Si può quindi stimare che utilizzando la soglia (in termini reali) del 2008, nel 2011 si sarebbe registrato un incremento dell’incidenza, rispetto al dato registrato, di circa un punto e mezzo percentuale, cioè un milione di poveri in più. (4)
Ma non è tutto. La percezione di impoverimento poggia evidentemente anche sulle aspettative. È utile da questo punto di vista guardare ai movimenti delle soglie su una prospettiva più lunga. Possiamo spezzare l’ultimo trentennio in due intervalli di pari lunghezza – 1982-1996 e 1997-2011 – e osservare cosa è cambiato nel tempo. (5) Nella figura 1, le soglie sono state normalizzate (rendendo pari a 100 l’anno di partenza dei due quindicenni) e considerate in termini reali (depurate cioè dell’inflazione, dividendo per l’indice dei prezzi al consumo). Come si può osservare, la soglia di povertà nel 2011 è in termini reali sostanzialmente identica a quella di quindici anni prima. Ma se si va più indietro nel tempo, l’andamento è ben diverso: nel 1991 la soglia di povertà era del 40 per cento più alta che dieci anni prima, mentre nei cinque anni successivi si sarebbe ridotta di cinque punti (sempre in termini dell’anno base). In altri termini, è dall’inizio degli anni Novanta – oltre vent’anni, quasi una intera generazione – che i consumi (e con essi la soglia di povertà) hanno smesso di crescere. Ma se le aspettative si formano sull’esperienza (in questo caso basta guardare anche solo agli anni Ottanta) è evidente la frustrazione per il mancato miglioramento delle condizioni materiali e il senso diffuso di impoverimento, che quindi va ben oltre il dato della misurazione ufficiale.
L’ultima riflessione ha a che fare con la capacità d’acquisto della soglia di povertà relativa. Torna utile a tal proposito l’altro indicatore proposto dall’Istat – la povertà assoluta – di cui si è rivista profondamente la metodologia nel 2007. In questo caso, le soglie di povertà – differenziate a seconda del numero e dell’età dei componenti il nucleo familiare, nonché dell’area territoriale (Nord, Centro e Mezzogiorno) e del tipo di comune di residenza (area metropolitana, grande e piccolo comune) – indicano le risorse necessarie ad acquistare un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali “per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile”. (6) Ci si aspetterebbe soglie di povertà assoluta molto più basse di quelle di povertà relativa (altrimenti apparirebbe poco utile il passaggio da una nozione assoluta a una relativa nella misurazione della povertà nelle economie più sviluppate). Eppure così non è per un gran numero di famiglie. Le soglie di povertà assoluta del Centro-Nord sono sempre più alte per i single della soglia corrispondente di povertà relativa (unica a livello nazionale), spesso più alte nel caso delle coppie (soprattutto aree metropolitane e giovani coppie), e in alcuni casi più alte anche per famiglie di tre e quattro componenti nelle aree metropolitane del Nord. Sembrerebbe quindi che, soprattutto per le famiglie con bassa numerosità e nelle aree metropolitane del Centro-Nord, la prolungata stagnazione dei consumi abbia portato a una definizione inadeguata di povertà utilizzando la misurazione relativa, tanto che la soglia, secondo la stessa definizione dell’Istat, risulterebbe inferiore a uno standard “accettabile”. Un’altra conferma della distanza tra la percezione diffusa e la misurazione ufficiale della povertà.
* Direttore generale per l’inclusione e le politiche sociali, ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Le opinioni qui espresse sono del tutto personali e non coinvolgono in alcun modo l’amministrazione a cui l’autore appartiene.
(1) Uniche eccezioni quelle di Avvenire e l’Unità, che invece hanno scelto di aprire l’edizione del 18 luglio con i titoli, rispettivamente, “Più poveri, sempre più giovani” e “Più poveri nell’Italia della crisi”.
(2) Si è registrata un’oscillazione maggiore di mezzo punto soltanto in un anno, il 2004 con l’11,7 per cento.
(3) Con una eccezione rilevante, però, rappresentata dagli Stati Uniti.
(4) Adottando una ipotesi di distribuzione uniforme nell’intervallo considerato.
(5) Siamo comunque obbligati in questa suddivisione. La serie storica dell’attuale misurazione dell’Istat parte infatti dal 1997. L’Istituto comunque, nel quadro della ricostruzione delle statistiche in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, ha pubblicato anche i dati precedenti fino a tutti gli anni Ottanta, con l’avvertenza della non confrontabilità col periodo successivo per via della profonda modifica del disegno dell’indagine sui consumi.
(6) Il virgolettato è tratto dalla definizione adottata dall’Istat, riportata in calce alle annuali “Statistiche report” sulla povertà pubblicate dall’Istituto.