Per Maurizio Bergamaschi, docente di Sociologia dei servizi sociali, queste persone, che una serie di eventi porta alla marginalità estrema, vivono sentimenti di vergogna e restano per lo più invisibili ai servizi pubblici e privati.
Un tempo la marginalità riguardava persone quasi “naturalmente” portate ad una situazione di esclusione sociale, persone che nella loro storia e biografia avevano conosciuto difficoltà familiari, l'orfanotrofio, il carcere minorile, l"ospedale psichiatrico; oggi invece chi precipita nella povertà viene da un tessuto sociale vivo, ha conosciuto un inserimento sul piano lavorativo e relazionale, e vive la nuova condizione di esclusione come un dramma personale.
È questo, secondo Maurizio Bergamaschi, docente di Sociologia dei servizi sociali all’Università di Bologna, l’elemento nuovo che sul piano dell’analisi sociologica si trovano di fronte studiosi e operatori che agiscono a contatto con la marginalità e la povertà. Un elemento che “non è del tutto nuovo” ma che “in passato si poteva spiegare con l’assenza di supporti, con la mancanza di un sistema di welfare” e che oggi invece “si verifica in forma rilevante anche in presenza di un apparato di stato sociale che pur con tutte le sue lacune è ancora una realtà viva”.
Professore, quale è la figura chiave di questa svolta?
La figura paradigmatica che – pur non riassumendole tutte – ne mette in evidenza la rilevanza sociale è quella del lavoratore povero, cioè di quella persona che pur in presenza di un reddito si colloca al di sotto della soglia di povertà. Rientra in queste caratteristiche il 10% circa delle persone che vivono una esclusione sociale. Anche in altri paesi europei i numeri sono questi, ma altrove dopo i trasferimenti di risorse statali tale percentuale tende a scendere. In Italia invece questo non succede”.
Quali sono le conseguenze su queste persone?
La nuova condizione porta la persona a ridefinire le proprie reti e relazioni e i propri legami, a cui si accompagna un sentimento di vergogna e inutilità che le spinge a nascondersi e a rendersi invisibili. La loro nuova condizione non ha alcun riconoscimento sociale, e la perdita del lavoro è vissuta come una colpa individuale che si traduce nella vergogna e nella tendenza a “sparire”, almeno fino a quando la situazione non diventa davvero disperata. E così i servizi non riescono ad intercettarli se non quando la povertà diventa così estrema da non consentire alcuna forma, seppur minima, di autonomia. Ciò che conta maggiormente in questo processo è che la condizione di privazione si accompagna al venir meno di una serie di supporti che permettono alla persona di riconoscersi come individuo in grado di proiettarsi nel futuro e di immaginarsi come individuo nel senso pieno del termine.
Quali sono le cause che determinano la caduta in uno stato di esclusione sociale?
Ci sono ipotesi e letture diverse al riguardo. Credo che non si possa parlare di un evento catastrofico che interrompe la biografia della persona ma piuttosto di una concatenazione di eventi più o meno significativi che intervengono nella sua storia e determinano la nuova situazione. Non è la perdita del lavoro, la grave malattia, l’incidente invalidante o il divorzio, ma un insieme di eventi che conducono al disagio e poi, nelle forme estreme, alla strada. Il passaggio alla strada d’altronde non è mai immediato ma preceduto da una serie di situazioni intermedie che non sempre sono registrate e osservate in modo adeguato.
Eppure spesso il senza fissa dimora imputa ad un evento la sua condizione…
Vero. Il racconto che la persona fa della sua traiettoria è molte volte incentrato su un singolo evento, ma si tratta di una strategia discorsiva per rendere accettabile socialmente la propria condizione in quel momento. E’ importante riconoscere l’esigenza di salvaguardare una immagine di sé positiva, e questo elemento va anche valorizzato perché indice della conservazione di un proprio sé, ma occorre essere molto attenti nel non assumere quel racconto come l’effettiva realtà, perché se anche l’istituzione si concentra su un singolo aspetto, perde di vista il cuore del problema.
Quanto la povertà estrema riguarda anche interi nuclei familiari?
Situazioni di grave disagio familiare esistono e sono intercettate per lo più dal privato sociale, come i centri di ascolto Caritas. Il servizio pubblico non riconosce queste situazioni perché si muove in una logica categoriale che non contempla la famiglia, situazioni come quelle di nuclei in cui un reddito c’è, ma insufficiente alle esigenze della famiglia nel suo complesso. Il problema è assai diffuso, ma rimane per la gran parte sotto un grande cono d’ombra. I nuclei familiari vivono il disagio nel privato, mettono in campo strategie più o meno formali per superare il mondo critico e non ricevono alcun tipo di supporto esterno.
Come le politiche sociali hanno risposto alla nuova povertà sociale?
I piani di zona parlano di nuove aree di intervento, di esclusione, di nuova marginalità. Ad una lettura attenta però ci si accorge che in questa categoria confluiscono tutte quelle situazioni di vita che non trovano una collocazione nelle altre aree. L’area dell’esclusione sociale diventa una sorta di contenitore di situazioni eterogenee, dalla disoccupata di lunga durata all’immigrato senza fissa dimora appena arrivato in Italia, che non hanno alcun rapporto l’una con l’altra. E che creano difficoltà agli stessi operatori dei servizi sociali. D’altro canto, la logica delle categorie è comunque da superare, perché quell’approccio presuppone un universalismo astratto che non trova riscontro nelle situazioni di vita. Il punto è comunque riconoscere le nuove situazioni come fatto pubblico, che ci riguarda tutti perché è in gioco il legame sociale, una società che mantenga l’interdipendenza fra tutti. E come pensare questa interdipendenza è la sfida che servizi e politiche si trovano di fronte.
Nella logica delle categorie, fra stereotipi e pregiudizi, grande spazio all’immigrato…
La figura del migrante è sempre ricondotta all’interno della figura del povero: cosa possibile, ma non necessariamente vera sempre e comunque: è così vasto il tema che non si può ridurre tutto all’unità. Peraltro, c’è un aspetto interessante, ed è quello della cittadinanza, del diritto ad avere diritti: il senza fissa dimora italiano non è in grado di esercitarli ma comunque li mantiene, almeno sul piano formale. Il migrante invece spesso non è cittadino, e deve convivere anche con questa forma di ulteriore marginalità. Sull’altro versante, in molti casi nella scelta migratoria c’è una componente di autonoma scelta soggettiva che deve essere riconosciuta e valorizzata.
A proposito di modalità di azione, l’idea dei servizi “a bassa soglia” ha portato risultati positivi?
I servizi a bassa soglia si sono posti il problema di intercettare fasce di utenza che in passato non accedevano alle strutture, e dunque hanno risposto ad una esigenza reale. Però non basta. Se a questi non si accompagnano anche altre strutture, di fatto è preclusa ogni possibilità di accesso a quelle persone che mantengono immagini di sé molto forti e che non sono disponibili ad accettare il degrado della propria immagine e della considerazione del sé che l’ingresso in quelle strutture presuppone. Il rischio dunque è che forme di disagio che ancora non sono “estreme” non vengano intercettate fino a quando il soggetto non ne può proprio fare a meno.
E quando la situazione diventa cronica?
E’ un problema. Ci sono strutture di accoglienza che ospitano al proprio interno persone da più di vent’anni: ne ho trovato diversi in un centro bolognese di seconda accoglienza. Qui l’intervento mostra tutti i suoi limiti, perché la persona assume l’istituzione come il proprio quadro di vita e la trova capace di soddisfare i suoi bisogni. Perde autonomia, e dunque si arriva al paradosso di persone che rifiutano una collocazione abitativa autonoma perché consci di non poterla gestire. Piuttosto che confrontarsi con l’ennesimo fallimento, rifiutano – secondo me giustamente – anche una casa.
E come se ne viene fuori in questi casi?
Non credo si possa immaginare un intervento risolutivo nel breve periodo se la situazione si è cronicizzata e sedimentata. Certamente, in senso più ampio, bisogna puntare sulla prevenzione, immaginando più percorsi all’interno dei servizi. Oggi è previsto un unico percorso, che conduce dalla basse soglie alle seconde accoglienze ad una situazione di preautonomia e di autonomia piena. Questo modello conserva un suo interesse ma è necessario affiancarne altri, perché il rischio è che una volta raggiunto uno step intermedio ci si fermi lì. D’altronde, un unico percorso standard valido per tutti è illusorio: le storie di vita sono maledettamente diverse le une dalle altre e uniformarle in un unico magmatico contenitore è profondamente sbagliato. Oggi sotto questo punto di vista i limiti e l’incapacità dei servizi è evidente.
Redattore Sociale