Si chiama "Last minute market": un associazione che ha organizzato la distribuzione dei prodotti in scadenza a favore di mense e “soggetti socialmente svantaggiati”. I nuovi poveri. A fondarla è stato Andrea Segrè agro-economista e professore ordinario di politica agricola internazionale e comparata a Bologna. Che a Linkiesta spiega: «Impariamo a leggere le etichette: se c’è scritto da consumarsi preferibilmente entro vuol dire che anche se è scaduto da poco, è ancora buono». Ma, dice, non chiamatela decrescita.
Siete tra quelli che davanti allo scaffale pieno di yogurt allungate la mano per prendere quello in fondo, quello con la scadenza più lunga? Bocciati. Il pacco di pasta ancora chiuso ma scaduto finisce nella pattumiera? Bocciati ancora. Mangiate carne, sempre carne, fortissimamente carne? Avete un’impronta ecologica insostenibile. E, soprattutto, state dando una bella mano alla crisi economica. E, quindi, per uscirne vivi, c’è una ricetta alternativa a quella propinata dai titoli dei giornali, avallata da fior di economisti che, sull’onda di un progetto spin-off dell’Università di Bologna, hanno abbracciato la teoria mettendola in pratica. Altro che spending review, è arrivata l’ora della waste review.
Ce ne parla Andrea Segrè, agro-economista, professore ordinario di politica agricola internazionale e comparata a Bologna e fondatore del "Last minute market": un progetto nato come costola del suo corso di studi che da alcuni anni è una realtà: l’associazione messa in piedi dal prof ha organizzato la distribuzione dei prodotti in scadenza a favore di mense e “soggetti socialmente svantaggiati”. I nuovi poveri. Ci guadagnano tutti: i produttori hanno un costo in meno, quello dello smaltimento dei prodotti scaduti, e le mense hanno cibo da distribuire. «Lo sa che il più grande produttore di yogurt in Italia spende ogni anno 20 milioni di euro solo per poter smaltire la propria merce scaduta?».
No. Cosa significa? Produrre, produrre, produrre. Siamo al paradosso: i costi per smaltire i rifiuti di questa iper produzione sono altissimi. E in questo periodo di crisi non è certo una buona notizia.
Dunque, siamo alle solite: ci sta suggerendo di “decrescere”. È la decrescita felice…Non proprio. La waste review si colloca all’interno della forbice tra produrre troppo e vivere con meno. Riassumendo potremmo dire: produrre e consumare il giusto.
Facciamo degli esempi. Riempire il carrello del supermercato con le offerte e poi scoprire che a fine settimana il 30% della roba comprata finisce nell’immondizia. Riducendo il cibo che viene buttato in pattumiera, eliminando consumi e comportamenti dannosi dal punto di vista ambientale i riuscirebbero a risparmiare fino a tre punti di Pil. Ogni famiglia getta infatti nella spazzatura 1.600 euro l’anno di cibo andato a male o semplicemente non utilizzato.
Stiamo parlando di economia o ecologia? Economia, oltre che ecologia. Certo, se impariamo a farle andare a braccetto guadagneremmo tutti, anche le aziende.
In tempo di crisi sembra un paradosso dire alle aziende: producete di meno. Non diciamo quello, ma: producete in maniera razionale. E, soprattutto, razionalizzate la distribuzione. Difficile anche dire: compriamo di meno. Già con il potere d’acquisto al lumicino si spende di meno, anche per i generi alimentari. E quando becchiamo una super offerta ci lanciamo a capofitto. Bene, cambiamo le offerte. Imponiamo ad esempio che i prodotti in scadenza costino la metà. Hai bisogno del latte? Se compri quello che scade oggi lo paghi al 50%. Io dico che si vende.
Che poi, se anche lo beviamo domani, è ancora buono. Infatti. Impariamo a leggere le etichette: se c’è scritto da consumarsi preferibilmente entro vuol dire che anche se è scaduto da poco, è ancora buono.
Perché ce l’avete con chi mangia carne? No, affatto. Però stiamo attenti all’impronta idrica: ogni spreco porta con sé altro spreco e ogni azione di risparmio conduce a nuovi risparmi. Solo nel 2010 abbiamo buttato via 12,6 miliardi di metri cubi di acqua, impiegati nella produzione di 14 milioni di tonnellate di prodotti agricoli abbandonati nei campi e mai consumati. Anche la dieta conta perché, a livello planetario, il 70% dei consumi di acqua dolce è impiegato nel settore dell’agricoltura e dell’allevamento. Ogni chilo di carne di manzo costa 16 mila litri di acqua e per un’alimentazione a base di carne occorrono circa 3.600 litri di acqua al giorno, mentre ai vegetariani ne bastano 2.300. Ovvio, non sto dicendo: diventiamo tutti vegetariani. Ma piccole scelte possono fare la differenza. Consumare prevalentemente carne di pollo rispetto al manzo: per produrre 300 grammi di petto di pollo necessitano 1.100 litri di acqua, mentre per lo stesso peso di manzo serviranno 4.650 litri. Piccoli accorgimenti, che possono avere un impatto positivo sulla nostra impronta idrica. In un anno la dieta mediterranea utilizza poco più di 1.700 metri cubi di acqua procapite contro i 2.600 di quella anglosassone.
Noi, nel nostro piccolo, dobbiamo fare la nostra parte. Ma basterà a farci uscire dalla crisi? Basterà a far quadrare un po’ di più i nostri conti. Ma non è sufficiente a combattere la crisi. Anche le istituzioni devono agire e rendersi contro che prima della spending review bisogna attuare la waste review, i tagli agli sprechi. Se nell’Unione europea il 42% del totale degli sprechi si realizza nelle mura domestiche e almeno il 60% potrebbe essere evitato, bisogna che il sistema attivi una politica di riduzione degli sprechi. Noi ci proveremo, il 29 settembre faremo firmare a Trieste una carta con degli impegni precisi a cento sindaci del Nord est. È un primo passo, vedremo come proseguirà.