La catena della povertà


Pubblicato il 01.12.2011 in News Sociale



INTERVISTA AD ALBERTO FARNETI

Nel cuore di Roma, a pochi chilometri dalla Stazione Termini e a ridosso di un quartiere molto frequentato dalla gioventù romana, il Pigneto, sorge uno dei centri più antichi della Caritas, la “Cittadella della Carità Santa Giacinta”. Come la maggior parte dei centri Caritas di Roma, è stata fondata da Don Luigi di Liegro, che amava chiamarla Caritas di Ponte Casilino, in modo che i senza dimora potessero identificarla con un luogo fisico e raggiungerla così più facilmente.

Entrando in questa struttura grande e accogliente, si viene avvolti dall’odore di pane appena sfornato. Ci sono tante persone al cancello dell’ingresso che attendono ordinatamente di entrare e, nel grande cortile interno, una chiesa e un edificio con su scritto “Emporio della solidarietà”. Qui incontriamo Alberto Farneti, responsabile del servizio di accoglienza per persone senza dimora. Incuriositi, gli chiediamo subito perché all’interno di una struttura come questa vi sia un Emporio. “La Cittadella della Carità è una struttura di secondo livello a cui si avvicinano persone già passate per l’emergenza dell’ostello e nella quale si può restare anche per diversi anni. È rivolta soprattutto ad anziani senza dimora. Nel 2005-2006 sono stati attivati nuovi servizi, tra cui l’emporio. Si tratta di un vero e proprio mini-market in cui le famiglie che chiedono aiuto ai Centri di Ascolto perché non arrivano alla quarta settimana del mese, ma spesso neanche alla terza o addirittura alla seconda, possono fare una spesa settimanale gratuita, acquistando generi alimentari e prodotti di altro tipo. Rispetto a un pacco viveri, che viene consegnato alla persona senza che ne conosca il contenuto, il vantaggio di questo servizio è che dà alle famiglie la possibilità di scegliere il tipo di aiuto che gli occorre. Ciò consente loro, gradualmente, di riappropriarsi della propria dignità e di responsabilizzarsi, poiché gli viene chiesto di fare una spesa oculata, gestendo bene i punti mensili che gli vengono assegnati. Si tratta di un servizio temporaneo, da cui man mano la famiglia si affranca, ma credo sia molto aderente alla realtà che viviamo oggi. Don Luigi era particolarmente attento alla povertà estrema, agli ‘ultimi’, ma si rendeva conto che anche molte persone provenienti dalla classe cosiddetta medio-bassa, soprattutto negli anni ‘90 iniziavano ad entrare in percorsi di impoverimento. Potremmo dire che l’emporio risponde alla povertà dei penultimi e dei terzultimi”.

La povertà dei penultimi e dei terzultimi

Sollecitati da queste ultime parole, chiediamo ad Alberto se ritiene che nel corso degli anni, soprattutto in concomitanza con la crisi attuale, sia cambiata l’utenza della Caritas. “Ci siamo accorti di un cambiamento. Vent’anni fa erano più presenti nei nostri centri i senza dimora molto degradati, i cosiddetti ‘barboni’, anche se è un termine che non mi piace usare. Pian piano non sono stati rimpiazzati totalmente, resta sempre quella povertà estrema di cui parlavo prima e che merita tutta la nostra attenzione, ma c’è stato un parziale cambiamento dell’utenza, per cui abbiamo dovuto reinventare i nostri servizi e crearne di nuovi. È aumentata la povertà della classe media. Oggi arrivano ai Centri di Ascolto telefonate di persone che chiedono cose semplici, quasi banali. Ricordo una signora della Basilicata che una volta chiamò per sapere dove poter trovare a Roma una pensione economica per dormire, visto che non aveva soldi sufficienti per pagare un hotel. Vorrei però sottolineare che questo passaggio è stato graduale e lento. Sicuramente la grave crisi attuale ha inciso, ma non è stato l’unico fattore. I nostri centri non danno un polso immediato della situazione economica e sociale, ma ci restituiscono una fotografia di ciò che è accaduto già qualche anno fa e che stiamo scontando oggi. Perciò temo che questa crisi, come le altre, produrrà i suoi effetti peggiori tra qualche anno, a medio - lungo termine. Penso, ad esempio, a persone che hanno perso il lavoro già da qualche anno e che sono entrate da tempo in percorsi di impoverimento. Cuochi, operai del settore edile, artigiani, operatori del comparto alimentare: tanti soggetti che hanno scontato situazioni pregresse, crisi precedenti e per i quali le nostre strutture rappresentano un cuscinetto che li traghetta per un periodo limitato, sostenendoli e cercando di far acquisire loro una nuova voglia di vivere, una motivazione a ricominciare, e allo stesso tempo strumenti concreti per cercare un nuovo lavoro. Il nostro compito non è ‘restituire’ qualcosa a queste persone, ma semplicemente ‘riconoscere’ il loro valore intrinseco. La dignità non è qualcosa di derivato, ma è originaria in ogni essere umano, così come i diritti che da essa discendono”.

I giovani e la riscoperta della cultura

Una riflessione particolare va fatta sui giovani. Alberto segnala con molta preoccupazione un elevato aumento di giovani con disagio psichiatrico che si rivolgono ai Centri di Ascolto. “Questo è un segnale forte che non si può attribuire solo a cause organiche, ma anche a fattori ambientali e sociali. È assurdo che, nella lista dei disagi psichiatrici stilata dagli Usa, alcuni disagi siano stati derubricati. Questa crisi, che è anche culturale e di relazioni, sta facendo spostare l’asticella della normalità, tanto che alcune patologie non vengono più riconosciute come malattie, ma sono considerate normali. Spesso per i giovani non si tratta di problemi di lavoro, ma di un vero e proprio disadattamento che richiede risposte più complesse. Non ci si può limitare ad applicare un cerotto sociale alle emergenze. I giovani rappresentano un potenziale enorme che si deve cercare di far uscire e moltiplicare. Credo che oggi più che mai sia necessario attivare e stimolare, soprattutto nei ragazzi, dei percorsi culturali, che consentano di recuperare il valore della cultura in termini di bellezza e gratuità. In questo molto potrebbe fare la scuola, l’educazione. Alcuni giorni fa ascoltavo in radio l’intervista ad un insegnante di lettere, che raccontava come una delle sue più belle esperienze sia stata insegnare cultura italiana in un istituto professionale per meccanici ed elettricisti. Ha proposto a questi ragazzi, molti dei quali parlavano solo il dialetto palermitano, la lettura dell’Inferno di Dante, costatando con sorpresa il piacere che provavano nel leggerlo e la loro riscoperta della bellezza della cultura. L’educazione gioca senz’altro un ruolo fondamentale”.

La risposta delle istituzioni

Di fronte a queste realtà, domandiamo ad Alberto qual è la risposta delle istituzioni. “Devo dire che a Roma, la realtà che conosco, le istituzioni non sono assenti. Noi non possiamo garantire i diritti per tutti, questo è compito dell’istituzione, ma possiamo farci portavoce del disagio e della marginalità. Laddove le istituzioni si sono fatte carico di certe situazioni, creando diritti dove prima non c’erano, le nostre realtà si sono tirate volentieri indietro. Sono stati raggiunti risultati, tra cui un complessivo potenziamento del circuito di accoglienza per i senza dimora. Mi rendo conto che il compito dell’istituzione non è semplice, perché sempre più spesso deve mediare tra la garanzia di diritti per tutti e istanze e richieste della cittadinanza che vanno contro l’accoglienza e l’integrazione. Credo che ognuno di noi viva questa contraddizione al suo interno, tra la tendenza a difendere il proprio orticello e la spinta verso l’altro. Noi, per quanto possiamo, continuiamo a svolgere un lavoro di denuncia sociale partendo da dati concreti, senza strumentalizzare le situazioni. È in questa direzione che vanno i Rapporti annuali che pubblichiamo: vedere la realtà com’è, senza demagogia, e da questo cercare di elaborare delle proposte da affidare anche alle istituzioni. In questo lavoro non badiamo ai colori e agli schieramenti politici. Ricordo nel 1999, l’allora sindaco Rutelli, durante l’inaugurazione della targa che ha intitolato l’Ostello della Stazione Termini a Don Luigi, definire il nostro fondatore ‘una vera spina nel fianco per il Comune e le istituzioni’”.

I volontari: agenti di cambiamento

Un’ultima domanda la dedichiamo, e non potrebbe essere altrimenti, al ruolo dei volontari, al valore aggiunto che ha questa massa di persone che dedica gratuitamente parte del suo tempo agli ‘ultimi’, ai ‘penultimi’ e ai ‘terzultimi’. “Oggi assistiamo anche a una crisi del volontariato, è cambiato il modo di concepirlo – spiega Alberto -. 20-25 anni fa molte persone contribuivano a fondare dei servizi o delle strutture e restavano legate ad esse per tutta la vita. Ancora oggi prestano servizio molti di quei volontari ‘ideali’. Nel corso degli anni si è fatta strada un’altra concezione, un volontariato legato alla cultura del ‘mordi e fuggi’, concepito come oggetto per consumare il proprio tempo. Appagante certo, ma privo di una gerarchia valoriale di fondo che produce stabilità e continuità. È tutto molto più liquido e sfuggente. C’è tanto ricambio ma spesso non è un bene perché, tra tanti che se ne vanno, non altrettanti sono quelli che arrivano. Le fasce di età più rappresentative sono gli anziani e pensionati e le casalinghe. Manca quasi del tutto la fascia intermedia, tra i 30 e i 40 anni. Così come pochi sono i giovani, che vengono coinvolti soprattutto dalle parrocchie o da vari gruppi sociali in un volontariato ‘episodico’, dal quale è difficile che scaturisca una scelta consapevole e individuale. Probabilmente ciò dipende anche dalla crisi attuale, c’è meno tempo libero da dedicare al servizio. Ma c’è anche meno interesse, una perdita complessiva di valori, una tendenza all’individualismo, una mancanza di voglia nell’impiegare il proprio tempo in questo tipo di attività. Questo almeno finché non si prova l’esperienza. Tutti coloro che fanno esperienza di volontariato sono concordi nel dire che è un’attività vitalizzante, che arricchisce se stessi. Purtroppo oggi il valore aggiunto del volontariato è svilito, non ha più quella forza profetica che aveva anni addietro. Lo stesso concetto di gratuità è venuto meno, quasi non esiste più”. Ma qual è questo valore aggiunto dei volontari, chiediamo ad Alberto? “Il loro valore aggiunto è l’essere agenti di cambiamento. Non sono semplice manovalanza, non servono solo a coprire servizi che altrimenti non potrebbero andare avanti. Sono soggetti attivi che tentano di cambiare la realtà in cui vivono, veicolano sensibilizzazione e stimolo, trasferiscono messaggi nelle proprie comunità e spesso li concretizzano in servizi. Senza di loro nulla di tutto questo esisterebbe”.

 


Autore: Marco Romani e Francesca Tacchia