I nuovi disagi invisibili (o solo difficili da vedere?)


Pubblicato il 28.04.2011 in News Sociale

L'intervento di Don Colmegna al seminario di Redattore Sociale


Il tema che mi è stato proposto per questo intervento: “i nuovi disagi invisibili”, mi sembra rimandi al ricorrente concetto di “nuove povertà”, nozione polimorfa e per certi versi  ambigua. Difficile distinguere fenomeni realmente nuovi da situazioni immutate nel tempo, disagi comprovati da disagi percepiti.
Il tema è di grande attualità – se solo si considera che secondo l’ISTAT nel 2009, il 15,2 per cento delle famiglie ha presentato tre o più sintomi di disagio economico tra quelli previsti dall’indicatore sintetico definito dall’Eurostat. Questo valore non presenta variazioni statisticamente significative rispetto all’anno precedente e si conferma molto più elevato tra le famiglie con cinque componenti o più (25,8 per cento), residenti nel Mezzogiorno (25,1 per cento) e tra le famiglie con tre o più minori (27,1 per cento).

Il quadro offerto dagli indicatori di deprivazione e di difficoltà economica si presenta sostanzialmente immutato rispetto all’anno precedente, quando era significativamente peggiorato rispetto al 2007 (anno in cui a soffrire di tre o più sintomi di disagio era stato il 14,8 per cento delle famiglie, contro il 15,8 per cento del 2008), anche se crescono le famiglie che non potrebbero far fronte a spese impreviste di 750 euro (dal 32,0 al 33,3 per cento in media), quelle che sono state in arretrato con debiti diversi dal mutuo (dal 10,5 al 14,0 per cento di quelle che hanno debiti) e quelle che si sono indebitate (dal 14,8 al 16,5 per cento).
Soprattutto si fatica a comprendere che la povertà economica è legata a una complessità di fattori che contribuiscono ad estendere la fascia di vulnerabilità e un senso forte di insoddisfazione ed incertezza. Questo implica che dobbiamo tenere conto della multidimensionalità del fenomeno, fenomeno che al tempo stesso rischia di diventare onnicomprensivo e sfuggente.

A partire dalla mia esperienza, e oggi in modo particolare dall’esperienza della Casa della Carità, vorrei porre in rilievo alcuni punti:
Il piano inclinato della povertà: dati statistici e percezione soggettiva.
Occorre tener conto dei processi di impoverimento, non solo della povertà come esito.
Precarizzazione del lavoro, contrazione del welfare, fragilità familiare sono i tre fattori che moltiplicano la vulnerabilità, la allargano a fasce sociali un tempo relativamente al sicuro, accrescono l’ansia nei confronti del futuri. Malgrado la soglia di povertà sia statisticamente fissata in circa 1.000 euro per due persone, un single si sente “in miseria” con 1.200 euro, una coppia con 1.800, soglia che sale a 2.000 per nuclei più numerosi.

A incidere è anche il fattore casa: circa 2 milioni e mezzo di famiglie hanno un mutuo a carico per un esborso medio annuo di 5.5 mila euro (14 % della propria spesa). Il 19 % delle famiglie in affitto spende, per l’affitto, 5 mila euro all’anno (18 % della spesa complessiva). La grande città, dove lo sfilacciamento delle relazioni sociali è più evidente e l’emergenza abitativa più sofferta, è un contesto che aggrava questi processi, mentre consente a chi vuol “nascondersi” di immergersi nell’anonimato, rende più difficile costruire relazioni di vicinato e di mutuo aiuto.
Le diverse traiettorie verso la marginalità.

Se pensiamo al caso emblematico della popolazione senza dimora, possiamo osservare che la povertà economica si intreccia con un’accumulazione di fattori di debolezza sociale: mancanza o perdita del lavoro, disagio psichico, etilismo, tossicodipendenza, ecc.
Vorrei però sottolineare in modo particolare il rapporto tra emarginazione sociale e lacerazione dei legami familiari: il sociologo francese Robert Castel ha parlato di “disaffiliazione” per esprimere il circolo vizioso che rischia di prodursi tra esclusione dalla sfera del lavoro ed espulsione dalla protezione della solidarietà familiare. Anche tra gli emarginati e i senza dimora si distinguono poi storie diverse, che vanno da coloro che, ancora giovani, sono caduti nei circuiti dell’esclusione senza neppure aver potuto sperimentare una vita lavorativa e familiare normale, a persone che invece hanno subito una traiettoria di mobilità discendente, contrassegnata dalla perdita del lavoro, dei legami familiari, della stabilità abitativa.

Il caso dei senza dimora può essere considerato la punta di un iceberg, fatto di crescente vulnerabilità e incertezza tanto nella sfera lavorativa, quanto in quella dei legami familiari. Va osservato che, di fatto, la funzione di compensazione delle incertezze del mercato (e della vita) è stata implicitamente affidata nel nostro paese alla famiglia, nella presunzione di una stabilità e di una capacità redistributiva che mostrano in vario modo segni di logoramento.

In condizioni normali, il doppio lavoro dei coniugi erode le riserve di energie e di tempo per assicurare le funzioni di accudimento, cura, gestione domestica. Le famiglie, se ne hanno la possibilità, tendono pertanto a rivolgersi sempre più al mercato per puntellare la loro fragile organizzazione quotidiana, mediante l’assunzione di colf, baby-sitter, assistenti domiciliari per gli anziani.

La fragilità crescente delle unioni intacca poi la capacità di mutuo sostegno in circostanze avverse. Una tutela sociale che passa in modo sostanziale, benché implicito, attraverso la redistribuzione di risorse nell’ambito familiare presuppone infatti una solida tenuta dell’istituzione-famiglia e dei ruoli all’interno di essa. La stessa scarsità di risorse pubbliche destinate al sostegno del reddito dei disoccupati, un’anomalia rispetto a quanto avviene, sebbene in misura diversa, nei paesi dell’Europa centro-settentrionale e nei grandi paesi sviluppati extraeuropei, Stati Uniti compresi, ha sempre trovato una giustificazione nell’idea che la famiglia rappresentasse la camera di compensazione dei redditi che ricomponeva al suo interno gli squilibri determinati dal mercato del lavoro. Questo assunto poteva avere senso, e ha di fatto largamente funzionato, anche se non senza costi sociali, relazionali e psicologici, finché le persone senza lavoro erano giovani o anche donne sposate. Ancora oggi la “famiglia lunga”, specialmente nell’Europa mediterranea, rappresenta una fondamentale risorsa per la protezione dalle incertezze e per il sostegno della qualità della vita delle giovani generazioni, e anche dei giovani adulti.

Quando però la disoccupazione colpisce il maschio adulto, la madre sola con figli da accudire, le persone che non hanno una famiglia alle spalle, questo modello di tutela implicitamente familistico rivela tutta la sua fragilità. Inoltre, problemi come la malattia, la dipendenza da alcool e droghe, o la stessa perdita del lavoro, sono contenuti dalle reti familiari con difficoltà sempre maggiori; e se in questi casi la rete familiare non regge, o non sussiste, lo scivolamento verso forme di povertà diventa una minaccia incombente.

Da ex ricchi a nuovi “poveri vergognosi”.
L’indebolimento della protezione familiare si rivela in tre situazioni emblematiche, rilevate da una ricerca sulla disoccupazione adulta nell’area milanese a cui abbiamo collaborato come Casa della Carità:

  1. quella delle persone che non dispongono del sostegno di persone legate a loro da vincoli familiari; oppure sono coinvolte in separazioni e divorzi in età non più giovane e in situazioni già compromesse dalla fragilità economica e lavorativa;
  2. quella delle donne con bambini, prive del sostegno del coniuge, o con compagni a loro volta colpiti dalla precarietà occupazionale, malati o inabili al lavoro, o con genitori anziani da assistere: tutte situazioni in cui le relazioni familiari, anziché rappresentare un sostegno, finiscono per diventare un vincolo per la possibilità di accedere al mercato del lavoro, di lavorare con continuità, di cogliere opportunità più interessanti, ma più esigenti in termini di orari e di disponibilità;
  3. quella delle persone che subiscono a livello psicologico e relazionale i contraccolpi della disoccupazione, o del fallimento e della cessazione di attività autonome. In questi casi, spesso la famiglia, anziché compensare la perdita di reddito, di autostima e di partecipazione sociale derivante dalla disoccupazione, aiutando le persone a reinserirsi, ne viene travolta.

Vi è, inoltre,un risvolto inquietante: in una realtà laboriosa e mediamente benestante come quella milanese, molte persone coinvolte da processi di impoverimento e soprattutto dalla perdita del lavoro, si vergognano della loro condizione e hanno ritegno a chiedere aiuto. La ritrosia rischia di farli ripiegare ancora di più su se stessi, di aggravare l’isolamento e magari la depressione. Un tempo apposite confraternite e istituzioni sorgevano per aiutare i “poveri vergognosi”, in genere ex benestanti travolti dagli eventi della vita. Dobbiamo anche oggi studiare come raggiungere e aiutare i poveri invisibili.

La solidarietà tra e per consimili.
Stanno aumentando le resistenze sociali a farsi carico della sorte di chi versa in situazioni estreme di disagio. CENSIS parla di solidarietà tra e per consimili. La crescente incertezza economica l’instabilità rispetto alla propria condizione si riflette in una solidarietà a corrente alternata, rivolta solo ai propri simili, mentre la dimensione pubblica e quella dei diversi, magari proprio coloro che hanno più bisogno di aiuto, viene rigettata.
L’aumento della vulnerabilità e della fragilità sociale non ha dunque generato una crescita della solidarietà e della capacità di condivisione, ma piuttosto un ripiegamento sulla domanda di ordine e una caccia ai nemici del nostro benessere. Poveri e senza dimora sono tornati a essere visti come una minaccia per la sicurezza, da allontanare e respingere dalle nostre città, specialmente allorquando appartengono a minoranze visibili e storicamente colpite dal pregiudizio.

Una delle forme più caratteristiche e ricorrenti è quella della categorizzazione, secondo modalità collettive e omogenee, di gruppi sociali internamente differenziati, stratificati, di diversa origine e condizione giuridica, oltre che composti di individui irriducibili all’etichetta collettiva, per i quali la caratterizzazione “etnica” è solo uno degli aspetti dell’identità sociale. La loro condizione di povertà passa in secondo piano, messa in ombra da etichette come quelle di “zingari”, “nomadi” e via discorrendo.
Negli ultimi anni nell’area milanese hanno occupato il centro della scena le resistenze e le clamorose mobilitazioni inscenate da una parte della popolazione maggioritaria contro gli insediamenti destinati a Rom e Sinti, con l’appoggio di forze politiche che hanno deciso di cavalcare la protesta. Le ripetute demolizioni di questi ultimi compromettono inoltre i tentativi di integrazione e di tutela sociale, anche sotto il profilo dei diritti umani basilari, aggravando la marginalità delle persone e dei gruppi sociali che li subiscono. Nelle vicende degli ultimi mesi, il disegno di conseguire obiettivi di sicurezza e legalità per tutti attraverso interventi articolati di integrazione sociale, individuali e familiari, finalizzati a traguardi di autonomia economica e abitativa, sembra essere stato sovrastato dalla linea politica della rimozione degli insediamenti sgraditi e della cacciata dei “nomadi” .

Gli immigrati: un ausilio senza cittadinanza.
Nei processi che generano disagio per molti versi nascosto, dobbiamo poi considerare più ampiamente l’immigrazione. Il caso è particolarmente interessante, perché gli immigrati sono tipicamente “desiderati, ma non benvenuti” (Zolberg) nelle società avanzate.
Sono richiesti per lo svolgimento di molti lavori necessari, ma sgradevoli (i lavori delle cinque P: pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente). La loro relativa povertà li rende flessibili, adattabili, laboriosi, quindi utili; ma questa stessa povertà, resa più visibile da aspetti come il colore della pelle, i tratti somatici, le difficoltà linguistiche, il nome straniero, li rende poi mal accetti come vicini di casa, frequentatori dei parchi urbani, utenti di servizi pubblici, padri di compagni di scuola dei nostri figli. Le nostre società hanno strutturalmente bisogno di questi poveri laboriosi, ma faticano ad accettarli come con-cittadini a pieno titolo, con pari doveri e diritti.

La grande riluttanza a concedere loro, per esempio, la cittadinanza italiana, traduce istituzionalmente questa tensione tra integrazione economica ed esclusione sociale. L’ideale, lo sappiamo, sarebbe che scomparissero dopo l’orario di lavoro e fino al mattino dopo. Non per caso, forse, gli immigrati più accetti, anche quando si tratta di irregolari, sono le assistenti domiciliari degli anziani (le cosiddette badanti), esempio paradigmatico di un’immigrazione benefica (per noi) e pressoché invisibile

Conclusioni
La povertà, vecchia e nuova, il disagio urbano sono fenomeni destinati ad accompagnare lo sviluppo della nostra società nel tempo della globalizzazione. Lo sono per via dei rischi di impoverimento connessi ad un’economia di mercato più competitiva ed instabile, per la minore disponibilità di risorse per la protezione sociale, per l’aumento della fragilità delle unioni familiari. Nello stesso tempo, importiamo una popolazione relativamente povera per adibirla ad una serie di compiti socialmente gravosi (Bauman parla di “spazzaturai”).
In ogni caso, servono investimenti all’altezza delle sfide; è quindi importante che dalla società civile sorgano iniziative che allarghino il perimetro della sollecitudine verso gli altri: superando l’orizzonte dei prossimi e dei simili, per rivolgersi ai più lontani e dissimili, in quanto emarginati.

Le organizzazioni di solidarietà si collocano in una terra di mezzo, tra inclusi ed esclusi. Tentano di ricucire il tessuto di una società lacerata, approntando misure di accoglienza e percorsi di recupero per chi ha perso l’orientamento. Si fanno portatrici di un’idea di giustizia e di diritti di cittadinanza più alta di quella oggi prevalente nelle opinioni pubbliche.
Oggi più che mai, però, una vera coesione sociale necessita anche di una imprenditorialità sociale che sbarazzi via la frammentazione assistenzialistica. Cresce nel sociale un capitale etico e umano che non può essere sciupato in un’emergenza continua, in una sussidiarietà da supplenza.

Il disagio, nelle sue articolazioni, chiede risposte complesse, ma concrete, qualificate e competenti; chiede di monitorare i risultati, efficienza, qualità. Il sociale, con una visione coesa, chiede un grande fiorire di investimenti, di produzione di risposte. Anche il mondo economico e quello finanziario devono essere protagonisti di questa responsabilità sociale. Va superata con coraggio una concezione di “welfare assistito”, ideologicamente legato a un falso egualitarismo per rimettere in moto una cultura di prossimità, che porti sul territorio l’etica della relazione, dell’incontro, dell’ospitalità. Vi è un debito etico di cittadinanza che va espresso con rigore, coniugando aiuto e sviluppo di autonomia e responsabilità.

Come Casa della Carità, siamo impegnati nello sviluppo di percorsi di inserimento delle persone in difficoltà che nulla concedono all’assistenzialismo, bensì insistono sulla responsabilizzazione dei beneficiari, l’attivazione, l’orientamento al lavoro e all’autonomia. In questo percorso abbiamo bisogno di istituzioni pubbliche e di soggetti sia non profit sia profit che condividano in modo fattivo questo approccio e cooperino nel renderlo diffuso, capillare, socialmente accettato.
Un passo significativo in questo senso può essere compiuto anche da un giornalismo sociale sempre più attento e competente.


Autore: Don Colmegna
Fonte: AffariItaliani.it