Come si fa la lotta alla povertà?


Pubblicato il 11.01.2006 in News Sociale

Pezzana (Fiopsd) su Italia Caritas sintetizza 20 anni di reddito minimo: ''Come si fa la lotta alla povertà? Con le parole. E se non funzionano, cambiando le parole. È una sintesi, non lontana dal vero, delle politiche italiane''.

"Come si fa la lotta alla povertà? Con le parole. E se non funzionano, cambiando le parole. È una possibile sintesi, magari cinica e provocatoria, ma non troppo lontana dal vero, delle politiche italiane di contrasto alla povertà degli ultimi vent'anni". Così sintetizza due decenni di "reddito minimo" Paolo Pezzana, presidente della Fio.psd (Federazione italiana operatori persone senza dimora), in un articolo uscito sull'ultimo numero del mensile "Italia Caritas".

"Ridurre la povertà alla sola dimensione economica è gravemente sbagliato - prosegue Pezzana -. Ma tale dimensione è indubbiamente un veicolo di povertà, tanto più se si continua a misurare quest'ultima solo in base alla capacità individuale di spesa. La necessità di contrastare anzitutto la dimensione economica della povertà è così chiara che, in linea di principio, mette d'accordo tutti: sociologi, economisti, operatori sociali, politici e probabilmente, se qualcuno si prendesse la pena di chiederglielo, gli stessi poveri". In Europa, infatti, "patria dello stato sociale del benessere (welfare state), tutti i paesi sono concordi nel ritenere che la lotta alla povertà debba partire da una misura base di natura economica, variamente denominata ma di struttura simile: un trasferimento monetario da parte dello stato verso chi ha un reddito troppo basso per sopravvivere autonomamente, in misura tale da integrarlo sino a un minimo ritenuto sufficiente".

Tornando in Italia, il reddito minimo di inserimento (Rmi) "era uno strumento per aiutare le famiglie in difficoltà, avviando (o riavviando) al lavoro i loro membri che avevano perso temporaneamente la capacità di guadagno o stavano cercando un'occupazione", ricorda il presidente della Fio.psd. La sperimentazione del Rmi, partita nell'ottobre 1998 in 39 comuni, con possibile estensione al resto d'Italia in caso di esito positivo, è durata solo 2 anni. Le risorse economiche erano erogate dal ministero del welfare, i progetti a carico dei Comuni. "In alcuni comuni la sperimentazione ha avuto esiti incoraggianti, con l'immissione nel mercato del lavoro di una parte non insignificante dei soggetti recettori del Rmi - riferisce Pezzana -. Ma secondo il ministero la sperimentazione è fallita; il Rmi si è rivelato 'una misura quasi esclusivamente assistenziale e
clientelare'. Era dunque stata annunciata l'introduzione del Reddito di ultima istanza (Rui), strumento pensato per le famiglie che, non disponendo di fonti di reddito proprie e durature, necessitano di assistenza anche economica, mentre per i soggetti che potevano aspirare a rientrare nel mondo del lavoro si sarebbero utilizzanti gli ammortizzatori sociali previsti dalla riforma Biagi del mercato del lavoro. Nonostante gli annunci, però, la sperimentazione del Rui non è mai cominciata".

Negli anni i nomi e le definizioni si sono avvicendate: "minimo vitale", "reddito minimo", "reddito garantito". Ma l'Italia, con la Grecia, resta l'unico paese europeo senza uno strumento. Un vuoto confermato dalla legge finanziaria 2006: "C'è un'ampia parte della popolazione, e sono i poveri (che i fiscalisti chiamano a questo proposito 'incapienti'), che la leva fiscale proprio non considera; potranno anche non pagare le tasse, ma non per questo avranno le risorse per arrivare alla fine del mese", osserva Pezzana, rilevando: "Sino a che ci si ostinerà a considerare gli individui e non le famiglie come destinatari delle misure fiscali, gli incentivi effettivi che queste ultime potranno produrre continueranno a essere inferiori alle aspettative, perché, come dimostrano autorevoli studi anche recenti, è dentro le dinamiche famigliari che si realizzano le parabole di impoverimento". Non solo: un altro problema è che "si continua a considerare il welfare, con le misure ad esso collegate, come un mero costo sociale e non come un investimento necessario allo sviluppo, conveniente anche per l'economia e indispensabile per sostenere il suo rilancio". Vent'anni di discorsi, conclude Pezzana: "Sono cambiate le parole, si sono trovate scuse sempre nuove e aggiornate (l'ultima è il trasferimento delle competenze sociali alle regioni, ma ciò, in virtù dell'articolo 117 della Costituzione, non significherebbe nulla se il reddito minimo fosse un livello essenziale di assistenza sociale), resta il nulla di fatto".


Autore: lab
Fonte: Redattore Sociale