Bologna, Piazza Grande: “Ok al piano freddo, ma non farne un ghetto”


Pubblicato il 10.11.2011 in News Sociale

Dal decentramento dei servizi al requisito della residenza per accedere alle strutture, sono tanti i problemi irrisolti. Secondo Leonardo Tancredi servono “soluzioni strutturali”. E sul piano freddo si dice “perplesso” sui container al Parco Nord Un nuovo corso “visibile e condiviso”, un inverno che deve trasformarsi nella “stagione delle soluzioni” per tanti problemi rimasti troppo a lungo irrisolti a Bologna in tema di senza dimora e grave povertà. È l’appello rivolto al Comune di Bologna dal presidente di Piazza Grande Leonardo Tancredi sull’editoriale del numero di novembre, appena uscito in strada. A dicembre il giornale compirà 18 anni di vita, un periodo in cui anche la povertà ha cambiato faccia, complice la crisi economica. Con quali conseguenze? Ecco cosa ci ha risposto.
 
L’assessore alle Politiche Sociali Amelia Frascaroli ha da poco presentato il piano per l’emergenza freddo: si parla in particolare di container da allestire, a quanto pare, al Parco Nord, alla periferia della città, grazie al coinvolgimento della Protezione civile. Piazza Grande è favorevole a questa soluzione? 
“Negli ultimi anni il piano freddo si era più o meno stabilizzato: d’inverno si attivavano il dormitorio di Capo di Lucca, il capannoncino aggiuntivo e qualche posto in più al Beltrame. Quest’anno il piano si è dovuto modificare, in parte perché Capo di Lucca ora ha un’altra funzione (ospitare i senza dimora con ‘indifferibile bisogno di accoglienza’, ndr), in parte perché mancano risorse. Il coinvolgimento della Protezione civile inizialmente ci ha lasciato perplessi perché temevamo che si offrisse solo una brandina, senza nessun intervento sociale. Su questo versante l’assessore ci ha rassicurato, però rimane qualche timore sul luogo. Il Parco Nord è difficile da raggiungere, potrebbero crearsi fermate di autobus popolate da un certo tipo di persone, con una ricaduta sui residenti della zona. Anche l’idea dei container o di una ‘tendopoli’ ci lascia perplessi, avremmo preferito uno stabile. Ma sappiamo anche noi che non ci sono risorse: questo ci è stato presentato come un piano a costo zero per il Comune”.

Nell’editoriale di novembre di Piazza Grande lei invoca una “stagione delle soluzioni”. Quali sono i problemi da risolvere?
“Ci sono alcune questioni che sono sul tavolo da troppo tempo. Ad esempio il decentramento dei servizi sociali, la residenza come requisito per accedere ai servizi, gli interventi sulle zone grigie della povertà. Noi ci aspettiamo che il Comune cominci ad affrontare questi problemi, che sono più strutturali. L’assessore si è detta disponibile a superare la questione della residenza, e per noi è un segnale positivo, ma vorremmo capire qual è la direzione che si vuole seguire”.

Nel frattempo in questi anni la povertà è aumentata anche a Bologna. E ha anche cambiato faccia…
“La sensazione è questa, che ci sia un aumento della povertà e della presenza in strada, anche se sono fenomeni difficili da quantificare. Sicuramente sono cambiati i motivi per cui si finisce in strada: non ci sono più solo l’alcolismo, l’uscita dal carcere, i problemi di salute mentale… molti hanno semplicemente perso la stabilità economica o relazionale. Queste persone hanno ancora la capacità di risollevarsi, ma più stanno in strada più rischiano di sviluppare i problemi di tutti gli altri, i senza dimora ‘classici’. Per questo è sbagliato distinguere fra vecchi e nuovi poveri”.
 
Ma in questo contesto Piazza Grande riesce ancora a creare dei percorsi di “uscita” dalla strada?
“Nel dormitorio di Capo di Lucca si è creato un gruppo che sta facendo questo percorso: molti sono diventati operatori pari del servizio mobile di sostegno, alcuni fanno dei lavoretti con noi o con la cooperativa Fare Mondi, quella che ci ha dato più soddisfazioni è una persona che oggi lavora nel nostro bici-centro, ed è assunto con un regolare contratto. Invece non riusciamo a intervenire sul problema abitativo, gli alloggi di transizione sono pochissimi, quasi nessuno riesce a ottenerli. E queste persone non hanno la possibilità di rivolgersi al mercato degli affitti privati”.
 
Fra le attività che ha elencato non c’è la diffusione del giornale. Significa che non funziona più come elemento di riscatto?
“Non funziona soprattutto per i cosiddetti nuovi poveri: la vedono come un’attività da senza dimora, come una certificazione del loro stato. Funziona invece per il gruppo dei diffusori rom rumeni, che da 5-6 anni ha cominciato a occuparsene. Oggi sono una trentina. Fanno un po’ fatica a sentirsi parte dell’associazione, per cui cerchiamo di organizzare momenti di convivialità, di incontro, per aiutarli a fare gruppo”.
 
Proprio per la presenza dei rom però siete stati spesso attaccati…
“Sì, ma è una scelta che rivendichiamo. Quando si sono rivolti a noi non avevano nessuna possibilità di accoglienza, anche perché la Romania non era ancora nell’Unione Europea. Sono quelli che vivevano sul Lungoreno o nei parchi, che venivano sgomberati e rimpatriati. La loro situazione oggi è molto migliorata: quasi tutti sono riusciti ad affittare una stanza. In più stiamo avviando un’attività di mediazione di strada, per far capire a negozianti e cittadini che dietro i diffusori c’è un’associazione a cui possono rivolgersi”. 


Autore: (ps)