1999-2013: tanto ci è voluto per passare dal desing all’implementazione di una politica. A fine millennio, infatti, fu pubblicata (e il tempo passato ci sta proprio bene) la mappatura su stazioni ferroviarie impresenziate e altre risorse – ad esempio le green ways al posto dei rami secchi ferroviari – che potevano essere rigenerate per nuove forme d’uso sociale.
E la scorsa settimana è stato firmato il protocollo d’intesa tra Ferrovie dello stato e importanti organizzazioni di rappresentanza non profit (tra le quali la rete dei Centri servizio per il volontariato) per favorire il trasferimento di queste strutture ad attori sociali sul territorio. Non che in mezzo non sia successo nulla, anzi. Si possono segnalare interessanti esperienze come quella di Onds, la rete degli help center ferroviari che, lontano dai riflettori, ha costruito una vera e propria offerta di welfare per ora rivolta a casi più urgenti (persone senza fissa dimora) ma in futuro anche a più ampio raggio. Una progetto pilota che ha fatto leva sulla stessa partnership delle stazioni impresenziate, allargandola poi ad altri attori business e dotandosi a tal fine di un sistema informativo che ha pochi eguali in Italia. Si può sapere in tempo reale quante persone accedono ai centri e per quali ragioni, misurando così l’impatto sociale e dando vita a un’infrastruttura che non è solo informativa, ma anche orientata a sviluppare e consolidare sinergie con altri servizi di protezione sociale (pubblici e privati).
Rimane il fatto che si fa fatica, nel nostro paese, a scalare l’innovazione. Anche nel caso di iniziative dove la generazione di valore è ben visibile e pure a svariati livelli. Una stazione ferroviaria riattivata è un’innesco per politiche di coesione territoriale, creazione di economia, di nuova occupazione, di iniziative in senso lato sostenibili. Lo stesso dicasi per svariate altre progettualità che in contesti diversi perseguono lo stesso obiettivo: riattivare beni immobili e spazi per finalità di interesse pubblico. Qualcuno ha riconosciuto in questo variegato insieme di iniziative il punto centrale di un “piano industriale” per il terzo settore e l’imprenditoria sociale. Una bella visione che però, ad oggi, è senza una politica che faccia da cornice, accelerando processi che altrimenti, come nel caso appena descritto, hanno bisogno di decenni per iniziare a realizzarsi su ampia scala.
Per fare in modo che qualcuno ci provi è utile guardare ancora a singole iniziative che però in sé racchiudono gli elementi qualificanti di una polica per gli asset comunitari in Italia. Tra le più interessanti e di prossima realizzazione c’è [re]vive, una call for ideas rivolta a creativi in senso lato (pure a “teorici in cerca di pubblico” coi quali sono molto solidale), allo scopo di dar vita a un’inedita forma di biblioteca all’interno di uno stabile abbandonato a Milano durante il fuorisalone del mobile. La proposta è interessante perché concentra nello stesso spazio una molteplicità di progetti, iniziative, imprese, seminari, workshop che, oltre al valore in sé possono generare un’ulteriore esternalità positiva, ovvero sperimentare nuove forme di utilizzo di quello spazio risolvendo il trade off tra tempo necessario per la riattivazione ed efficacia della nuova forma d’uso. Una modalità di riattivazione che è innovativa anche nella misura in cui riuscirà a far risparmiare qualche anno di attesa.